La vicenda di Aquilonia, dove il Comitato civico Palazzine Bene Comune si sta battendo per salvare dalla demolizione un lotto di casette asismiche nate nel post terremoto degli anni Trenta, restituisce il senso di smarrimento che spesso vivono le piccole comunità delle aree interne.
C’è chi ne sta facendo un discorso di memoria, di conservazione di un pezzo di storia e quindi di identità del luogo e della popolazione. Un’argomentazione valida che però costituisce una lettura romantica dei fatti della quale non vogliamo parlare in questa sede.
Quello che invece ci spinge a riflettere è che in una piccola realtà come quella aquiloniese si possano avere idee così diametralmente opposte sul futuro di un pezzo di paese che pure sta lì da circa 80 anni. E in generale che nell’Irpinia dei piccoli Comuni si abbiano visioni dicotomiche sul futuro di comunità che avrebbero bisogno piuttosto di darsi un obiettivo condiviso, anche minimo, pur di salvare il salvabile, di individuare una minima prospettiva di sopravvivenza a fronte di dati demografici ed economici negativi. Di aprire le porte alla modernità intesa come espansione degli orizzonti, capacità di darsi nuovi scopi o di attualizzare i vecchi.
Vale per Aquilonia e per qualsiasi altro paese dell’Alta Irpinia, della Baronia o della Valle del Calore, volendo circoscrivere il ragionamento all’area orientale della provincia. I centri storici, salvo il mese di agosto e qualche altra giornata nel corso dell’anno, sono simulacri di vite passate, drammaticamente vuoti e silenziosi. Scarseggiano punti di aggregazione veri e partecipati, al di là del bar nella piazza o della parrocchia; mancano centri culturali e luoghi per impiegare il tempo libero di quei pochi che restano con iniziative che, oltre a essere occasione di socializzazione, siano pure opportunità di impegnarsi per la comunità in modo concreto. Non siamo solo noi a dirlo: pure l’ultima ricerca di Italia Oggi sulla qualità della vita colloca l’Irpinia in fondo alla classifica per questo aspetto.
Per alcuni di essi si è messo in campo lo sforzo di provare a immaginare un destino diverso recuperando i borghi a scopo turistico-ricettivo. A Castelvetere sono stati pionieri di questa strategia: l’albergo diffuso è in funzione già da qualche anno, non ha mai fatto registrare il boom delle prenotazioni, ma i visitatori non sono mancati sebbene in modo discontinuo. L’anno scorso venne inaugurato anche il borgo di Quaglietta a Calabritto: posizione strategicamente favorevole, affidamento della gestione ad alcuni giovani. Non è però ancora partito. Altro luogo destinato a diventare un piccolo grande albergo diffuso sarebbe Rocca San Felice, sul quale da diversi anni insiste un progetto di rifacimento delle casette costruite al cospetto del donjon. I lavori proseguono tra accelerazioni e frenate. Lavori in corso pure a Cassano Irpino dove è stato recuperato un intero rione abbandonato nel dopo terremoto e attorno al castello sono in fase di realizzazione alloggi e suite per circa cento persone. Continua il recupero anche del borgo di Cairano, la cui rupe già da diversi anni si è candidata a diventare dimora e ritrovo di artisti sulla spinta di Franco Dragone. Pure per le palazzine del lotto B di Aquilonia si era parlato in passato di reimpiego, per ospitare attività artigianali.
Non sappiamo se e quando tutte queste realtà partiranno e andranno a regime. Magari alcune saranno più fortunate e altre meno. Ma sappiamo che la loro partenza e la possibilità che funzionino non sono affatto scontate proprio per la confusione su ciò che i paesi dovrebbero essere; confusione che regna tra gli ammnnistratori, gli imprenditori, le associazioni e chiunque a qualsiasi titolo abbia interesse a dire la sua sul loro futuro. Perché la mancata realizzazione delle cose non è solo imputabile alla penuria di risorse pubbliche. Quando seppure lentamente esse arrivano, il più delle volte ci si ritrova a confrontarsi con mancanza di creatività, di idee chiare, di progetti e capacità operative.