766. E’ il numero degli occupati che l’area industriale di Calitri avrebbe dovuto generare. Quelli che invece vi lavorano adesso, secondo dati ufficiali aggiornati al 2014, sono solo 88. Tradotto in percentuale significa che ai piedi della collina su cui sorge Calitri lavora poco più dell’11% degli operai previsti.
Qualcosa non ha funzionato, anche se a un primo sguardo l’area industriale era sorta in un posto con buone potenzialità: non c’era l’autostrada, ma c’era la storica Fiera da poter sfruttare. Era vicina all’Ofanto, alla ferrovia Avellino-Rocchetta Sant’Antonio (tratta attualmente sospesa). Era servita dall’Ofantina, a due passi dalla Basilicata e dalla Puglia, prossima all’insediamento industriale di Nerico.
Nell’impianto inizialmente previsto dalla 219/81 i lotti erano 13 su ben 560mila metri quadrati, cioè una superficie sconfinata in rapporto alla realtà delle piccole cose irpine. Di tutto ciò è rimasto molto poco, e a tenere in vita un paziente ormai in coma profondo ci pensa solo il legno. Sembra essere questa infatti la vocazione dell’area. Tre i nomi: Rubner Holzbau, Iavarone Industria Legnami e Woodenroof.
Una quarantina di addetti per la prima realtà: l’azienda altoatesina è presente a Calitri dal 1991. Holzbau Sud gestisce il più grande centro per la progettazione e la produzione di strutture in legno lamellare dell’Italia meridionale, dando lavoro a una quarantina di addetti compresi ingegneri e autocaddisti. Nel 2009 l’ampliamento con l’occupazione di un secondo lotto. Iavarone, insediata anch’essa nel 1991, impiega invece su due lotti 19 persone nella realizzazione di semilavorati e segati selezionati per industria del legno. La Woodenroof infine è un’azienda di piccole dimensioni che occupa 2-3 addetti nella produzione di strutture in legno lamellare per uso civile e industriale. Ha preso il posto della Garden Plast dove erano previste ai tempi d’oro 50 persone: in realtà ne assunsero solo una trentina, poi nel ’96 il fallimento. Un piccolo indotto è sorto negli ultimi anni attorno a queste tre aziende fatto di microattività: falegnamerie, artigiani e la Ecoerre che produce e commercializza pellet.
Nell’area industriale calitrana dovevano esserci pure la Fa.Sc.Al. spa che faceva scatole in alluminio, ma ha chiuso lasciando a casa 35 persone. E la SO.CO.GE, che neppure è mai partita veramente ma i cui capannoni nel 2014 hanno richiesto un intervento di bonifica dall’amianto, conseguenza dell’abbandono. In realtà questi cartelli, ancora affissi davanti al capannone, provocano sempre un po’ di inquietudine…
C’era la Palcitric con i suoi 80 dipendenti, tra i leader mondiali della produzione di acido citrico, chiusa nel ’96. Era andata vicina all’acquisizione da parte di Coca Cola e Bayer… C’era pure la Fornace Silma che produceva vasi in terracotta: una quindicina di dipendenti, commesse in America, nel febbraio 2013 la chiusura. E la storica Salca (Società Anonima Laterizi Ceramiche Affini), fondata nel 1921. Tra gli anni Novanta e il Duemila il fallimento, l’acquisizione da parte di irpini, la vendita a imprenditori dell’Italia centrale e la successiva chiusura per delocalizzazione dell’attività.
Nel deserto calitrano resiste ancora la So.Ca.Dir Spa, meglio conosciuta come CA.MI: insediata nel 2013 con una decina di addetti si occupa di trattamenti e finiture speciali per metalli, anche per conto della Fiat. In perenne crisi le tre fabbriche del Gruppo Manco attorno al quale sarebbero dovute ruotare una cinquantina di persone, nel settore del recupero batterie esauste. Alla Nuova Sam (ex Plastic Sud) i cinque dipendenti rimasti, da diverso tempo, vivono grazie alla cassa integrazione; alla Ecopiombo, ex IBS srl (Industrie Batterie e Servizi), resistono una decina di dipendenti; nella terza azienda del gruppo, Accu Sud (ex Sam Srl) si è fermi a meno di tre unità.
Un capitolo a parte merita la CDI Industria Tessile srl. L’azienda produceva tessuti per jeans e nel ’96 aveva pure sottoscritto un accordo con l’indiana Raymond. Doveva essere il perno attorno al quale ruotasse il progetto del secondo distretto tessile della provincia, ma le cose andarono diversamente e per gli operai, oltre 200, iniziò il calvario. Il proprietario Gianni Lettieri, ora alla guida di Atitech, annunciò la riconversione dello stabilimento che si sarebbe occupato di batterie per accumulare energia e pannelli fotovoltaici. I dipendenti seguirono anche uno specifico corso di formazione, ma alla fine l’impianto venne aperto a Pontecagnano e alla mobilità per gli irpini seguì la fine del “sogno” lavoro in fabbrica. Lo scorso anno si era parlato di adibire i capannoni all’attività di confezionamento ortofrutticolo, niente di concretizzato al momento.