“Negli anni ’70 ero un bambino e poi un adolescente. Mi è rimasta impressa quell’epoca come un tempo aureo, perfetto e per questo ho voluto fare un confronto tra i valori di allora e quelli di oggi”. Carlo Crescitelli adesso ha 55 anni e di recente ha pubblicato il suo settimo libro, “Settanta revisited”. Un lavoro in cui si intrecciano tre piani: “Il diario del ragazzino di allora, ingenuo. Il filo rosso degli eventi del Tg, che tutti guardavamo. La voce dell’anziano rincattivito che analizza il presente e fa i conti con le delusioni”. Ma nel testo di Crescitelli non c’è spazio per il solo pessimismo, piuttosto a prevalere è la disillusione. “Gli anni ’70 si identificano con le battaglie del tempo, libertarie e femministe. Ma furono poco anni brutti, sporchi, ansiogeni, con tanta inquietudine politica. Segnati dall’utopia. Erano meglio o no? Quello che allora ci faceva incazzare, adesso lo rimpiangiamo. Siamo disillusi. Ma sia chiaro: la mia è una rievocazione, il libro parla dell’oggi”.
Quest’anno ricorrono i 50 anni dei movimenti studenteschi del ’68. Di recente abbiamo intervistato Paolo Saggese che ha curato una raccolta di saggi su quel periodo in relazione al nostro tempo. Lui sostiene che “prima si lavorava nella comunità per cambiare il mondo partendo da essa; oggi ci si sente incapaci, disarmati e questo induce al disimpegno”. Alla luce della sua esperienza, che è anche quella di un socio di una delle associazioni più attive in Irpinia negli ultimi anni, si ritrova su questa considerazione?
Non è il disimpegno che mi preoccupa, oggi. Del resto, a quello dovremmo esserci abituati sin dai tempi ormai già quasi lontani del riflusso berlusconiano. Come ripeto più volte nel mio libro, è piuttosto la nuova trappola del politicamente corretto a inquietarmi: questo nuovo voler approcciare i conflitti politico-sociali quasi fossero una sorta di neutra gara sportiva nella quale partire e concorrere tutti con pari opportunità. Dovremmo saper bene che non è per niente la stessa cosa, che non corriamo affatto tutti ad armi pari, e che gli effetti di ogni vittoria o sconfitta o pareggio saranno dunque ben più impattanti della competizione in sé. Eppure sembriamo ormai sempre dimenticarlo. Mentre ce l’avevamo ben presente, invece, negli anni Settanta che anche Saggese ha proprio così ricordato. Faccio un esempio, visto che hai voluto citare il mio personale impegno per il territorio: operare da e per un’area ultra periferica e plurisvantaggiata, come è l’Irpinia, significa non poter in questo ad essa applicare le stesse generali categorie di sviluppo turistico o economico in genere, ma dover giocoforza rimontare, urlare, sudare, inventarsi altro. Come facciamo ogni giorno noi di Info Irpinia, come cinquant’anni fa si era tutti abituati a fare. Mentre ora purtroppo, per difetto di consapevolezza, non lo fa ormai quasi più nessuno.
In questa provincia si scrivono decine di libri ogni anno però successi letterari se ne contano pochi, potremmo pure tranquillamente dire che sono assenti. Ci sono anche decine di eventi culturali, ma solo alcuni riescono a distinguersi per qualità. Come si spiega questa debolezza se pensiamo che la nostra terra ha dato i natali in passato a grandi intellettuali?
Posto che ahimè oggi di libri se ne scrivono troppi in genere rispetto a quanto pochi ahimè se ne leggono, non credo tanto alla reale debolezza delle nostre attuali energie culturali, quanto piuttosto alla loro nociva autoemarginazione causa narcisistico isolamento. A conti fatti e guardandosi bene intorno, noi irpini non siamo sotto questo aspetto a mio avviso fondamentalmente né meglio né peggio di altri: dobbiamo soltanto imparare a connetterci e a restare ben connessi col resto del mondo, come quasi tutti gli altri fanno, e noi invece molto meno. Quello della nostra purezza e identità, secondo me, spesso e volentieri non è che un ulteriore mito da sfatare: caliamoci per davvero nel mondo, proprio come facevano i nostri grandi, immortali modelli – De Sanctis docet – e la nostra peculiare identità saranno gli altri a scolpirla efficacemente dal di fuori. Con reciproco e impagabile vantaggio.
A proposito di cultura, lei è stato ospite della festa del libro a Sant’Andrea mentre a Calitri si teneva lo SponzFest. In pochi giorni in Alta Irpinia si è respirata un’aria diversa, come se fossimo meno periferia e più centro del mondo. Poi però le luci si spengono e tutto torna come prima per mesi. È la maledizione delle aree interne? Se ne può venire fuori?
Il nostro triste destino di area interna desertificata mi appare ormai quasi del tutto già portato ad esito, e dunque sono ormai poche le vie d’uscita che ci restano, alcune delle quali a questo punto molto, ma molto obbligate. Una avrebbe potuto e potrebbe ben essere la pianificazione integrata e monitorata di insediamenti ex novo legati alle nuove migrazioni, ma sembrerebbe proprio che gli ultimi indirizzi di governo nazionale vadano in tutt’altra direzione. Così, ci resta la suggestiva opzione del museo rurale en plein air, che se ben perseguita e condotta – vedi filosofie Sponz Fest et similia – può darci ancora a mio avviso molte e belle soddisfazioni, anche in chiave e in prospettiva di programmazione sull’arco delle quattro stagioni. Insomma, staremo a vedere: per il momento, grazie di avermi coinvolto in questa bella e interessante discussione aperta, su temi cruciali dell’oggi, eppur con spirito anni Settanta.