“Non sono un artista, sono solo un emigrante”. Sono le parole affidate a Ciccillo Di Benedetto (in arte Cicc’ Bennet) a restituire il senso de “Nel paese dei coppoloni”. Perché è forse la natura migratoria della sua vita ad aver fatto dono all’Irpinia di Vinicio Capossela, che alla terra che gli è così preziosa fonte di ispirazione ha dedicato un libro e un film, prodotto da Nexo Digital e LaEffe in collaborazione con Pmg e La Cupa, regia di Stefano Obino. Tra le tante “prime” italiane Vinicio Capossela ha scelto Lioni, rivedendo il suo film insieme a tutto il “cast”: personaggi che tali non sono impersonificano sé stessi, protagonisti della loro vita quotidiana che, da queste parti, diventa per certi versi eroica. Con un taglio documentaristico Capossela racconta il suo personalissimo ritorno a casa, alla sua Macondo da percorrere con la lana nel cappello, il mantello e la magia pronta all’uso.
I fedelissimi dell’accolita dei rancorosi caposseliana non possono che sognare di fronte a tanta intimità. Ma cosa resta de “Nel paese dei coppoloni” a chi lo vive? Forse per la prima volta sul grande schermo non c’è l’Irpinia “patinata” ma quella che gli irpini percorrono in lungo e in largo ogni giorno: l’Irpinia delle terre incolte, dei fiumi senza argine, della ruggine dei ponti. La desolazione e la tristezza, l’abbandono, la vecchiaia. La risata malinconica, i vicoli uguali a trent’anni fa (e forse a cento). Di fondo, la storia. Quella raccontata e quella certificata, con le immagini dell’istituto Luce che documentano la costruzione della ferrovia e la sua benedizione con l’acqua santa che sono belle quasi quanto gli aneddoti del barbiere Sicuranza o gli acuti di Ciccillo Di Benedetto.
Vinicio Capossela ripercorre questa storia con gli occhi di oggi e, naturalmente, con gli occhi dell’artista. E camminando nel vento del paese dell’eco tra i paesaggi dell’Alta Irpinia, suona strumenti antichi che hanno il timbro della libertà. Quella propria dell’artista ma che non sempre (o quasi mai) appartiene a chi vive questi luoghi, di cui si impregna l’ultimo lavoro discografico, “Canzoni della Cupa” (in uscita a marzo). Il tentativo di Capossela è forse proprio quello di regalare un po’ del suo famoso incanto e, a furia di provarci, di farci innamorare un po’ di più anche della parte più tormentata di questa terra, di un paese “che ci dice di tutti i paesi del mondo”. Per farsi raccontare la terra delle sue radici Vinicio sceglie un “Omero cieco”, che conosce ogni curva come se l’avesse vista tutta la vita, senza averne vista mai nemmeno una. E che – come solo gli irpini sanno fare così bene – non pone condizioni all’amore.
Anche qui si nasconde il senso dell’incanto viniciano. A bordo della trebbiatrice volante ci presenta l’Italia interna, i luoghi dell’Appennino, il paese dei coppoloni, le mammenonne, gli sposalizi. Ci chiede di rispondere alle domande della vita (“Chi siete? A chi appartenete? Cosa andate cercando?”) mostrandoci la terra che ha dimenticato i suoi sogni. L’Irpinia che appartiene ad ogni irpino e per cui Vinicio Capossela tratteggia un futuro tutto sommato ancora lontano dalla violenza della modernità. Con l’auspicio che, almeno questa volta, “ti sia lieve la tua nuova vita”.