(di Andrea Paradiso) – In occasione dell’8 marzo l’assessorato alle Pari Opportunità della Regione Campania ha voluto dare la possibilità di vedere gratuitamente e in anteprima, nelle sale cinematografiche aderenti all’iniziativa, la pellicola “Il diritto di contare”. Un film del 2016 che arriva nelle sale italiane proprio l’8 marzo, proiettato ieri al Moviplex di Mercogliano.
Un film che pur non rivoluzionando il tema della discriminazioni razziali e sessiste nei confronti della donna, aggiunge un nuovo piccolo tassello per una lettura più lucida della storia della donna in America. E non solo.
La storia di tre donne afroamericane Katherine G. Johnson, Dorothy Vaughn e Mary Jackson è di quelle che valeva la pena raccontare. La tenacia abbinata alla consapevolezza del proprio valore che affronta l’America dei primi anni ‘60, sostanzialmente razzista e governata dall’archetipo del maschio bianco. È in questo contesto che si inserisce Katherine Johnson, la prima donna afroamericana incaricata al calcolo delle traiettorie delle navicelle spaziali, che a partire del 1961 iniziarono a diventare una concreta realtà. Nello stesso contesto – non proprio piacevole – Mery Jackson divenne la prima donna di colore ingegnere della NASA, mentre Dorothy Vaughn fu una delle prima a districarsi nella programmazione del primo (enorme) calcolatore elettronico (alias il computer) in forza alle istituzioni governative.
Se l’uomo è riuscito a raggiungere la Luna, viaggiando nello spazio, è anche grazie alla brillantezza di queste tre donne. Risulta un film più storico che politico, descrivendo i fatti senza analizzare in maniera accurata i motivi delle discriminazioni, che anzi risultano essere tanto ancorati all’humus americano che si danno quasi per scontate, inculcando alle persone di colore un concetto di inferiorità, talvolta usato come pretesto di ironia e autoironia, ma anche come una chimera insormontabile. Eppure, la storia stessa del film dimostra che davanti qualcosa di più grande di noi (lo spazio, i numeri, il tempo, il progresso) poco importa il colore della pelle o il sesso, è necessario concentrare tutte le nostre migliori risorse umane.
C’è da mettere in conto, però, un certa visione semplicistica della faccenda narrata: tutti i neri sono le vittime e tutti i bianchi sono sia i carnefici, ma anche gli stupidi della situazione. Una pecca che fa storcere spesso il naso, vista la possibilità di un razzismo di rimando nei confronti dei bianchi. La seconda pecca del film è quella di rimediare, a questa fin troppa netta distinzione tra bravi/cattivi, con il succedaneo e smielato/buonismo che, alla fine, contagia tutti e che conduce ad un fin troppo scontato happy ending.
A risollevare la situazione ci pensano le tre “eroine” di questa storia Taraji P. Henson, Octavia Spencer, Janelle Monáe, che soprattutto quando sono insieme (troppo poco) danno il loro meglio completandosi (anche fisicamente) a vicenda, sottolineando un inciso mai troppo banale, come “l’unione fa la forza”, espressa visivamente nel film nella marcia delle donne nere – “segregate” nel loro risicato studio – alla volta degli uffici governativi per programmare il calcolatore elettronico.
Consigliato a chi gradisce un film che ricostruisce un periodo di forte cambiamento sociale, ma soprattutto alle donne che domani preferiranno andare a vedere Cinquanta Sfumature di Nero.
Cast: Taraji P. Henson, Octavia Spencer, Janelle Monáe, Kevin Costner, Jim Parsons
Regia: Theodore Melfi
PER SAPERNE DI PIÙ – Quelli erano gli Stati Uniti degli anni ’60, un paese dove di unito c’era ben poco e le persone di colore avevano un bagno diverso dai bianchi, bevevano da fontane contrassegnate dalla scritta “per persone di colore”, vivevano in quartieri specifici e lavoravano in luoghi appositamente assegnatigli.
Situazioni che col senno di poi risultano essere tanto vergognose e grottesche che talvolta ci si domanda se siano state romanzate, o create ad hoc per un film. È intollerabile e inconcepibile che nello stesso momento in cui si esultava per una missione spaziale – simbolo di futuro e progresso – in un’altra parte dello Stato Americano, una donna afroamericana (lo stesso dicasi per un uomo afroamericano) veniva cacciata dalla biblioteca ritenuta persona non gradita o relegata ad una sezione appositamente studiata.
Per renderci conto di come sia malata e stupida qualsivoglia discriminazione basterebbe vedere, tornando al film “Il diritto di contare”, l’amara scena del bagno di Katherine, costretta più volte ad andare su e giù per l’isolato per raggiungere i bagni delle “donne di colore”, lontani un chilometro dal suo nuovo ufficio, compromettendo la fluidità e la velocità del suo lavoro. Eppure le lotte contro le segregazioni erano già in atto e anzi, quella per l’affermazione della donna festeggiava i 53 anni dalla proclamazione della prima ufficiale Giornata della Donna, indetta proprio in America il 23 febbraio 1909.
Per anni falsi storici hanno minato la veridicità della nascita di questa ricorrenza, in particolare quella che vede la morte di 123 donne (e 23 uomini) durante l’incendio della fabbrica Triangle, a New York, il 25 marzo 1911, strumentalizzata maliziosamente per la propaganda dei sindacati.
In realtà fu lo spirito rivoluzionario delle Suffragette inglesi e di donne forti (e potenti) come Rosa Luxebrurg e Clara Zetkin a smuovere il magma delle rivendicazioni. Spirito rivoluzionario contraddistinto, nelle ultime due, da un forte ideale politico, quello socialista, che inneggiava alle uguaglianze economiche, sociali e giuridiche. Le lotte e le rivendicazioni, avvenute soprattutto negli Stati Uniti, vedevano come oggetto innanzitutto il diritto al voto, la libertà di poter decidere per chi votare e di godere della stessa considerazione dell’uomo. Inoltre le lotte puntarono anche alla tutela delle donne sul posto di lavoro, vista la disparità tra le molte ore di lavoro e il basso compenso ricevuto.
Questo spirito di protesta si spostò anche in Europa e in altre parti del mondo, e ogni stato adottò un diversa data per celebrare la donna, almeno fino alla prima Guerra Mondiale, che interruppe la ricorrenza.
La diatriba della data ha una sua degna conclusione a San Pietroburgo, l’8 marzo 1917 (il 23 febbraio secondo il calendario giuliano allora in vigore in Russia), quando le donne guidarono una grande manifestazione che rivendicava la fine del conflitto: la portata della protesta fu talmente ampia che, insieme alla sfiducia dei cosacchi, portarono al crollo dello zarismo ormai diafano, dando inizio alla Rivoluzione Russa di febbraio.
Per questo motivo, e per cercare una data univoca, si decise di fissare all’8 marzo la Giornata internazionale dell’operaia, ovvero la Giornata Internazionale della Donna o più comunemente 8 Marzo.
In Italia la prima vera celebrazione della Festa della Donna fu l’8 marzo del 1946, grazie all’Unione Donne in Italia (UDI), che inoltre accomunò la pianta di mimosa come simbolo della evento, visto che questa fiorisce proprio in quei periodi. Gli ultimi contributi per il rafforzamento della posizione ed amancipazione della donna si ebbero durante i Movimenti del 1968, ad esempio con il fenomeno del femminismo in Italia, che pur essendo caratterizzati da giuste intenzioni sul piano politico e sociale, implosero proprio per la loro vivacità ed esuberante portata.
Oggi, ovviamente, lo spirito politico e rivoluzionario di questo evento si è volatilizzato lasciando spazio all’esatto opposto di quello che professava quel Carl Marx di cui erano imbevute le correnti socialiste di Rosa Luxembrug e Clara Zetkin, ovvero il consumismo e la mercificazione del feticcio. Si festeggia la donna più per quello che ha conquistato negli anni che per quello a cui può ancora aspirare domani – che non è necessariamente una male – basta prenderne atto senza dimenticarci, però, che le donne son donne tutto l’anno.