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Treno d’Irpinia vago ricordo, ora la possibilità

Diciamoci la verità: molti di noi nati a cavallo tra gli anni ’80 e i ’90 il treno Avellino-Rocchetta Sant’Antonio lo abbiamo preso raramente. Quelli venuti dopo, probabilmente mai. Certo, per un periodo è stato mezzo di trasporto per gli studenti che la mattina si spostavano per la scuola da Nusco, ad esempio. Altri lo hanno preso per motivi di lavoro. Ma la nostra generazione non ne ha mai fatto un uso intensivo, anche perché l’apertura dell’Ofantina ha moltiplicato le auto in corsa da e verso Avellino, ridotto i tempi di percorrenza e costretto alla lenta soppressione delle fermate, riducendo la comodità e le possibilità di prendere il treno.

Però quasi ogni famiglia altirpina ha almeno un ricordo legato alla Avellino-Rocchetta. Un parente senz’auto da andare a prendere alla stazione, un altro da accompagnare. Spesso erano emigranti e Rocchetta rappresentava il passaggio obbligato per chi doveva raggiungere il Nord Italia, la Svizzera, il Belgio o la Germania. E poco importa se arrivati in quella stazione, un po’ isolata, in un territorio crocevia di tre regioni (Campania, Basilicata, Puglia), l’angoscia ti assaliva e con essa la sensazione di lasciarti alle spalle le radici e gli affetti (per chi partiva) o la modernità (per chi arrivava). Ma tutti abbiamo sentito e riconosciuto decine di volte il fischio della locomotiva attraverso le finestre aperte delle nostre abitazioni; tutti noi abbiamo subito le eterne attese ai caselli, per poi vedere transitare con una punta di delusione un solo vagone. Io ho due ricordi in particolare, entrambi legati al periodo delle elementari.

Il treno a vapore fermo nella stazione di Lioni domenica 19 novembre 1995. Cinque carrozze d’epoca e una locomotiva, modello 740.436 . Fu un evento un po’ ovunque: oltre 20mila le persone coinvolte. “Un ringraziamento particolare per quella giornata organizzata in occasione del centenario del treno – ricorda Pietro Mitrione dell’associazione InLoco Motivi – va necessariamente ai compianti Vania Palmieri e Nino Iorlano e a Don Antonio Tenore e Raffaele Capasso, che furono tra i più attivi fautori della manifestazione”. Il treno partì da Avellino, arrivò al capolinea e fece rientro nel capoluogo. Io ero con mio padre e il mio fratellino. Ricordo grandi e bambini salire sulla locomotiva o mettersi in posa davanti a essa per una foto che oggi fa parte della memoria privata di tante famiglie e della memoria collettiva della nostra comunità. Ma sono certa che accadde lo stesso un po’ in tutte le stazioni toccate da quel viaggio. C’era entusiasmo, c’erano le scuole, c’era curiosità. Eppure i grandi avevano visto il treno passare tante volte, ma quegli sbuffi grigi portavano con sé una carica di romanticismo che fece improvvisamente appassionare e riappassionare anche i disincantati che ormai, e già da qualche tempo, preferivano altri mezzi di trasporto.

Il secondo ricordo risale a qualche mese dopo, sempre nell’ultimo anno delle elementari: prima metà del ’96. Le emozioni di quella domenica di novembre avevano spinto tanti a battagliare per evitare che la ferrovia Avellino-Rocchetta Sant’Antonio venisse ridotta a mera presenza simbolica, primo passaggio verso la sospensione (arrivata poi a fine 2010 con l’assessore regionale ai Trasporti Sergio Vetrella) e quindi la dismissione definitiva. Le mie maestre, Alfonsina, Anna e Gerardina (in rigoroso ordine alfabetico), ci portarono via treno ad Avellino: visitammo il Museo Irpino, mangiammo pane e treccia lionese e andammo a Palazzo Caracciolo, sede della Provincia. Alla presenza del neo eletto presidente Luigi Anzalone, con la mia compagna di classe Teresa, tenemmo un discorso. Sì, avevamo dieci anni e stavamo chiedendo alle istituzioni del tempo, a nome della scuola elementare Teodoro Capozzi di Lioni, di impegnarsi a tenere in vita una cosa molto più grande di noi, per la quale si era prodigato cento anni prima addirittura Francesco De Sanctis. Eravamo emozionate e orgogliose.

Ma quel treno né io, né Teresa, né i nostri compagni di scuola con le loro famiglie lo prendevamo e avremmo continuato a non prenderlo! I paesi erano nel pieno della ricostruzione post terremoto, c’era voglia di modernità. Una ferrovia lenta e tortuosa suonava in controtendenza, non si sposava più con i bisogni delle comunità. Le vendite dei biglietti continuarono a calare e il resto è storia nota. In questi anni però è maturata una diversa consapevolezza: è come se la sospensione della tratta, l’aggressione dei binari da parte della vegetazione al punto da farli scomparire, le stazioni violate, vandalizzate o nel caso di Lioni tombate, abbiano fatto riemergere la passione per l’elemento identitario della ferrovia.

Oggi, senza la presunzione di avere la soluzione di una vicenda nella quale in tanti hanno avuto voce e per la quale in tanti si sono battuti, credo che si sia arrivati a un punto di equilibrio. Sono maturi i tempi per ridare davvero, al di là dei tre giorni di Sponz Fest ad agosto, nuova vita a quegli storici binari. Il treno turistico, che altrove già funziona e genera economia, può essere un’opportunità per l’Alta Irpinia e per le terre del vino fino ad Avellino. Il brand “Ferrovia dell’Irpinia” sarà fine o mezzo per portare qui quei turisti che ancora possono o riescono a vedere del buono in un territorio dal quale spesso noi preferiamo fuggire. Bisogna ripensare il concetto di treno e anche il nostro ruolo, non più di passeggeri di un anacronistico e improbabile asse di collegamento tra la Puglia e Avellino.

Paola Liloia

Classe 1985, laureata alla Sapienza in Editoria, Comunicazione multimediale e Giornalismo. Ha collezionato stage in uffici stampa romani (Confapi, ministero per la Pubblica Amministrazione, Senato) e collaborato con agenzie di comunicazione, quotidiani online locali e con il settimanale "Il Denaro". Ama la punteggiatura. Odia parlare al telefono e i tacchi. Ama l’Inter e le giornate di sole.

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