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Un medico avellinese e il suo romanzo di Liberazione

Siamo abituati a leggere e guardare vicende in cui “ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale” e ad affrontare la storia ufficiale come qualcosa di lontano e impersonale. Ma nel caso del romanzo storico “P di Partigiano” – edito Delta3 – gli eventi narrati sono realmente accaduti; i personaggi e i dialoghi sono stati ricostruiti secondo le fonti storiche e le testimonianze dei reduci; il protagonista, “P”, è ispirato al nonno paterno dell’autore, l’avellinese Pasquale Donnarumma.

Nella realtà si chiamava anche lui Pasquale e, nonostante fosse Cavaliere della Repubblica Italiana, decorato con Croce di Guerra per attività partigiana e fiero componente della brigata Garilbaldi in Montenegro, nemmeno i suoi più stretti familiari erano  a conoscenza dei dettagli della sua esperienza nel corso della Seconda Guerra Mondiale.

È una tendenza molto comune nei reduci quella di non condividere gli eventi patiti durante la guerra – racconta l’autore – Hanno visto troppo orrore e hanno cercato di reprimerlo, di dimenticare. Di mio nonno si sapeva che “aveva fatto la guerra”, ma quando gli chiedevamo di raccontarci qualcosa, si limitava ad aneddoti – paradossalmente – anche simpatici, oppure a delle riflessioni su quanto la guerra in generale fosse sbagliata. Il lato oscuro delle sue esperienze era tenuto debitamente nascosto, e invece ha costituito la materia prima del mio libro“.

Come sia venuta a Pasquale l’idea di scrivere il romanzo, infatti, è una storia nella storia. Il suo lavoro principale è quello di Neurochirurgo e Chirurgo Vertebrale presso l’Azienda Ospedaliera San Pio di Benevento, incarico che gli ha permesso – dopo diversi anni trascorsi a Foggia – di trasferirsi di nuovo ad Avellino con la moglie e il figlio, e di andare ad abitare proprio nella casa che fu dei nonni paterni.

Donnarumma decide di tenere per sé la vecchia scrivania e scopre così un doppio fondo segreto pieno di documenti di Nonno Pasquale, ricchi di informazioni sugli anni da lui trascorsi in guerra. È la spinta definitiva per iniziare a scrivere, che si aggiunge all’interesse decennale che ha sempre nutrito per l’argomento. Inizia un certosino lavoro di ricostruzione storica che lo porta perfino negli archivi del Museo Storico della Guardia di Finanza di Roma e in quelli degli Internati Militari di Berlino. Ogni informazione è il tassello in più di un bellissimo e struggente mosaico che gli si sta componendo sotto gli occhi.

La scelta di romanzare queste vicende realmente accadute, rende accessibile ad un pubblico più vasto il pezzo del conflitto che si è svolto nella ormai ex Jugoslavia: “Nel ’42, per evitare che mio nonno neodiciottenne venisse arruolato, il mio bisnonno lo fece reclutare nella Guardia di Finanza. Era quello che aveva fatto anche lui durante la Prima Guerra Mondiale ed era stato mandato di pattuglia in Costiera Amalfitana. Pensava così di proteggere il figlio e tenerlo in patria. Sfortuna volle che, questa volta, anche i finanzieri venissero mandati a combattere al fronte, e a mio nonno toccò la zona del Sangiaccato, annessa al Montenegro, e già devastata da una situazione difficile ben prima di quella guerra“.

Così il romanzo parte dal paesino della provincia dove “P” viveva,  con i filari di viti pronti per la vendemmia, i rapporti di “cordiale antipatia” con i vicini e i sogni di una vita tranquilla tra le colline, per accompagnarlo prima nell’addestramento da recluta e poi nelle terre montenegrine. Lì, P e i suoi compagni combattono, subiscono imboscate, passano notti insonni a sorvegliare i confini. E si legano sempre di più a quel popolo così lontano per costumi ma così vicino per ideali. Mangiano nelle loro case, bevono nelle loro osterie, si innamorano delle loro donne. Scoprono che c’è una grande differenza tra riempirsi di parole come “patria e onore” a tavola tra amici, e dover ammazzare degli innocenti per gli interessi di chi siede al potere.

Fino a quando arriva l’Armistizio e tutto si capovolge: i nazisti diventano i nemici e tocca prendere una posizione. Quei soldati, mandati in battaglia dal Duce, nati e cresciuti senza conoscere un’Italia precedente alla dittatura, capiscono di non avere, in realtà, niente a che fare con l’ideologia fascista e diventano partigiani.

“P di Partigiano” è romanzo di importante recupero storico che riempie un vuoto: è il primo mai pubblicato in Italia che abbia come sfondo il Montenegro, e che affronta vicende che anche i resoconti ufficiali hanno relegato in un angolo, perfino nell’esatto momento in cui si stavano svolgendo. “Non deve essere stato facile affrontare e giustificare i legami tra i soldati italiani e i partigiani di Tito“, suppone Donnarumma.

Ma è anche un romanzo di formazione, dove il soldato P è lasciato senza un nome completo perché a prevalere, pagina dopo pagina,  saranno la sua identità, i suoi pensieri, le vicende passate e il percorso interiore che lo porteranno a decidere da che parte stare.  “P” è chiunque abbia vissuto questo processo. Uno e migliaia. Partito per piantonare i confini, si ritrova ad imbracciare il fucile, a contare i morti, a patire la fame. Fino a quando non arrivano i nazisti e… “Lo scoprirà chi leggerà il libro, che comunque è soltanto la prima parte della storia. La seconda è in via di completamento“.

Il testo gode di importanti patrocini, come quello della Guardia di Finanza e quello dell’Associazione Nazionale Veterani e Reduci Garibaldini, “Riconoscimenti importanti di cui vado fiero, ma per me la cosa più importante è che questo libro sono io. Non fa di me uno scrittore, né voglio sostituirmi agli storici. Io resto un medico, ma ho avuto un’irripetibile possibilità di espressione e ho voluto realizzarla al meglio“.

Impossibile, infine, non chiedere all’autore una riflessione sulle celebrazioni della Liberazione, da qualche anno sempre al centro di polemiche politiche: “Tutto questo accade perché gli italiani non hanno ancora fatto i conti con il fascismo. Dobbiamo prenderne totalmente le distanze, smetterla di riferirci a quegli anni con il “noi”, come hanno fatto in Germania con il nazismo. Il 25 aprile può essere un bel punto di partenza per ragionarci, perché definire queste celebrazioni divisive”significa solo ammettere di aver fallito con questo processo che io ritengo necessario“.

Rosaria Carifano

Giornalista nonostante tutto, autrice per caso. Insegno danza e cerco cosa abbiano in comune un corvo e una scrivania.

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