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Il Censis fotografa le aree interne: Piemonte e Friuli rischiano più dell’Irpinia

Agonizzante, ma non finita. Riducendo la condizione della nostra provincia a una metafora medica, l’Irpinia appare un paziente affetto da un male terribile e potenzialmente terminale, ma le cui funzioni vitali non sono state ancora del tutto compromesse e per il quale (forse) una speranza di miracolosa guarigione è ancora possibile. Ma soprattutto l’Irpinia è in buona compagnia. E’ quanto emerge dallaricerca Censis“Il ruolo della dimensione regionale nell’evoluzione del mosaico territoriale italiano”, presentata a Roma a settembre e che domani a Napoli sarà oggetto di un focus sul Mezzogiorno, promosso da Consiglio regionale della Campania e Conferenza dei presidenti delle assemblee legislative. I ricercatori di Giuseppe De Rita, utilizzando 44 indicatori derivanti da circa 200 variabili, hanno infatti suddiviso il Paese Italia in otto gruppi. Innovazione nei comparti produttivi, internazionalizzazione, reddito, caratteristiche socio-demografiche: questi alcuni dei dati utilizzati. E l’Irpinia ricade nel gruppo 1 dei“piccoli centri agricoli del Sud abbandonato”, assieme a realtà come il Sannio, la Sicilia sud-occidentale, gran parte della Sardegna, il Molise, la Basilicata e le province di Brindisi e Vibo Valentia. In questi territori, secondo il Censis, il ritardo di sviluppo e la vocazione agricola sono i tratti più evidenti, tuttavia dietro di essi“si nascondono delle potenziali leve della crescita, come un incremento dell’immigrazione straniera che investe e crea impresa dando un minimo di vitalità ad un tessuto produttivo in grave difficoltà”. Così accade chela provincia di Avellino, ad esempio, fa registrare in Campania il più alto tasso di export e il miglior tasso di occupazione della regione. Una situazione diversa, ad esempio, da quella delle“Carneadi d’Italia (gruppo 8) cioè la fascia mediana inerte e a rischio involuzione”.Buona parte del Piemonte e del Friuli, ma anche la Liguria occidentale rientrano in questo blocco. Sono zone che fanno parte anch’esse della Strategia nazionale aree interne. Sono zone dove la crisi, pur non avendo minato l’alta produttività e il tenore di vita delle popolazioni, sta spingendo gli abitanti a trasferirsi altrove, mentre chi resta invecchia. Come a dire che qui le condizioni di partenza, qualche decennio fa, era migliori che nel Sud interno, oggi però si è sul punto di dover ripensare totalmente politiche industriali e sociali e servizi per fare fronte alle nuove esigenze della gente. Ma nel frattempoin dieci anni il Friuli ha perso nelle aree più periferiche anche il 10% della popolazione contro il -2,6% delle periferie rurali campane. Cosa dice tra le righe il rapporto? Intanto che quello dello spopolamento e della desertificazione economica delle aree interne è questione nazionale e non una specificità tutta irpina. Spesso invece per eccesso di vittimismo tendiamo a sentirci gli unici sconfitti o sfortunati.L’area interna irpina è meno aree interna di altre, sebbene i dati sullo spopolamento dicano che ogni anno 2mila persone lasciano la provincia di Avellino.Poi il rapporto dice che forse non tutto è perduto, che proprio perché il ritardo nello sviluppo a queste latitudini è cronico e, nonostante questo, qualche segnale di vitalità pure si registra, un’inversione di tendenza è processo lento ma non impossibile. Evitando magari di disperdere fondi e risorse, lavorando sul miglioramento dei servizi di base e delle infrastrutture, valorizzando le esperienze positive, a partire da quelle agricole, o incentivando lo sviluppo di nuovi settori. Quello che dovrebbe fare ilProgetto Pilota Alta Irpinia, impantanato però da tempo in una gestione approssimativa e litigiosa. Ma il rapporto dice anche che, mentre in Piemonte o Friuli l’involuzione è in agguato, in Irpinia un’ulteriore regressione rappresenterebbe la morte definitiva. Lì il rischio è alto, qui bisognerebbe rischiare qualcosa in più per non morire. comments

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