L’industria dimezzata di Solofra

Che il distretto conciario di Solofra sia in crisi non stupisce. Sul nucleo produttivo incidono fattori che vanno ben oltre la zona. E ben oltre l’Italia. La concorrenza di Cina e Russia, l’approvvigionamento difficile a causa della politica dei dazi. Del resto i numeri parlano molto chiaro. In venti anni si sono persi quasi 1500 posti di lavoro. E adesso sono poco più di 1500 i lavoratori totali in un’area immensa, circa 115 chilometri quadrati che comprende anche i comuni di Montoro e Serino. I numeri che ci offre questa particolare area industriale sono decisamente contradditori. Negli elenchi della Camera di Commercio risultano 592 aziende. Solo che la stragrande maggioranza conta uno o due dipendenti. Si tratta di uffici che vendono, comprano. Persone che lavorano da intermediari. Di produttivo c’è rimasto poco. E in effetti nel 2012, secondo dati Assindustria, si contavano soltanto 89 aziende che effettuavano il ciclo completo della lavorazione delle pelli.

Il fatturato totale dell’area è di circa 600 milioni di euro all’anno, di cui circa la metà è legato all’export. Una quota che resta comunque alta e che rende il distretto di Solofra ancora fondamentale per l’economia di questa parte di Irpinia. “Ma è una quota che da una decina di anni a questa parte è calata del 40 per cento”, fa notare Carmine De Maio della Fictem Cgil.

Come detto, su Solofra pesano le dinamiche internazionali. Nessun distretto tessile o conciario gode di buona salute in Italia. Però Solofra ha anche delle colpe. “La prima è quella di non aver costruito negli anni la logica consortile tra imprese – aggiunge De Maio – per abbattere i costi. Su questo le responsabilità sono di tutti. Della politica locale come degli stessi imprenditori, degli enti provinciali o regionali. E adesso – commenta – non c’è neanche un punto di riferimento. Qualche anno fa chiuse la Albatros. Con i suoi duecento dipendenti e con le garanzie per i lavoratori, l’azienda rappresentava un faro per Solofra. Una realtà alla quale tutti, chi più chi meno, doveva guardare. Era l’azienda più sindacalizzata. Di fronte nacque anche un centro di ricerca. Ci vennero politici e capi di stato…”.

Insomma, la Albatros rappresentava una luce sia per i lavoratori che per gli stessi imprenditori. Un’azienda trainante. Innovazioni come la pelle trasparente, e garanzie sindacali assicurate. Ora è in mano al curatore fallimentare. L’estate scorsa si è sfiorato l’acquisto del complesso. Il centro di ricerca che si trova proprio di fronte all’ex stabilimento è invece il classico esempio di cattedrale nel deserto. Nuova, costruita con tutti i crismi. Una cattedrale chiusa.

Un consorzio non c’era allora e non c’è adesso. E il fatto che il distretto stia solo sopravvivendo è anche dovuto all’assenza di legami con istituti di moda o design. “Certo – riflette De Maio – è vero che il prodotto finito made in Solofra non è mai esistito, perché quasi tutti si occupavano e si occupano di trasformazione delle pelli, però iniziative e accordi strutturali con il mondo della moda non sono nemmeno stati avviati”. Le altre caratteristiche. Moltissime aziende hanno una vita media molto bassa. Nascono e muoiono troppo velocemente. “Ci sono naturalmente imprenditori che continuano a far bene il proprio lavoro. La New Pelli, questa che vedi alla tua sinistra, è un’ottima azienda. Ma in generale non si intravedono prospettive. Noi insieme alla Cisl continueremo a chiedere un tavolo permanente sugli aspetti produttivi e anche sulle persone. Il lavoro che viene svolto in queste strutture, con un’aria spaventosa, non viene neanche definito usurante”.

 

Miracoli non sono possibili a breve termine. Per le caratteristiche dell’attività conciaria, vari piani di lavorazione, tutti gli stabilimenti si sviluppano in verticale a differenza di quello Albatros. Conseguenza? E’ quasi impossibile un riutilizzo. Se l’azienda fallisce nessuno sarebbe interessato a rilevare il capannone. E quindi  l’unica struttura vuota che può concretamente rinascere è quella della ex Albatros. Capannoni assai particolari. Alcuni erano case, trasformate in piccole fabbriche con norme di sicurezza assai blande (per usare un eufemismo). E allora? “Allora – chiude De Maio – una strada per chi resta è quella di abbattere i costi. Costi come quelli della depurazione naturalmente. Per questo serve l’Asi come il Comune, la Regione come gli imprenditori. Come sindacati continueremo a premere su questi aspetti”.

Un pollaio nell’area industriale

Per puntare a un qualsiasi nuovo impulso è necessario che questa area industriale diventi tale a tutti gli effetti. Il dramma inquinamento è naturalmente il primo su cui lavorare. Riguarda la salute dei cittadini, di quelli che vivono accanto al maxi-depuratore e di quelli che hanno bevuto l’acqua dei pozzi compromessi. E degli stessi operai. Ma l’ormai antico distretto industriale, questo un altro punto critico, ha bisogno di interventi strutturali. E’ molto diverso da quelli costruiti con la 219 (una piantina simile, cartello d’ingresso, sorveglianza, manutenzione). Qui solo i miasmi ti danno l’idea delle fabbriche. Per il resto parliamo case adattate, le erbacce crescono ovunque, la segnaletica è discutibile e il tutto è disseminato di baracche. Insomma, il distretto produttivo è un quartiere. Un quartiere di una città che ora conta 800 appartamenti sfitti. E capita anche di imbattersi in una specie pollaio sul torrente Solofrana, il fiume che esonda e travolge che secondo qualcuno “non sarà mai possibile riqualificare”. Un pollaio su un torrente pericolosissimo a venti metri da industrie che funzionano, alcune creativamente dipinte con murales.

Giulio D'Andrea

Direttore responsabile di Irpiniapost, classe 1978, si laurea in Giurisprudenza a Perugia e si perfeziona in Psicologia forense a Genova. Mostra subito insofferenza per i tribunali e soprattutto per le cancellerie. Inizia il percorso giornalistico nel 2006, lavorando su carta stampata, internet e televisioni tra Campania e Lazio. Attualmente collabora con il quotidiano “Il Mattino”. Leggeva molto e suonava anche di più, poi la visione ossessiva delle serie Tv gli ha impedito di continuare.

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