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‘Rivoluzioni tradite e giovani disarmati’, l’Irpinia per Saggese nel ’68 e oggi

Un libro sul ’68 in Irpinia, per raccontare ciò che a queste latitudini accadde 40 anni fa e fare un bilancio su ciò che è stato. Paolo Saggese e Gianni Festa firmano così “Il ’68 e gli irpini’, un lavoro corale, frutto di ricerca, al cui interno si ritrovano i contributi di molte firme della cultura irpina. Un saggio di Franco Festa descrive la città di Avellino e la situazione socio-economica e culturale di quel tempo; le testimonianze di Antonio Spina, Rodolfo Salzarulo e Peppino Iuliano, così come un articolo scritto da Antonio Di Nunno nel ’69, costituiscono il focus sul movimento studentesco in luoghi irpini simbolici come il liceo “Mancini” e il “Colletta” di Avellino, il “Pascucci” di Dentecane e il “De Sanctis” di Sant’Angelo dei Lombardi. Gaetano Aufiero racconta le studentesse illuminando il loro protagonismo in quella fase storica; gli interventi di Nino Lanzetta sul ministro dell’Istruzione Fiorentino Sullo e una serie di saggi di Antonio La Penna sui limiti dell’università italiana, alimentano la sezione dedicata alla politica e agli intellettuali, mentre nell’ultima parte della raccolta è la Chiesa al centro dell’analisi attraverso le figure di alcuni sacerdoti come Don Michele Grella e Padre Pio Falcolini, di cui scrive anche il magistrato Domenico Gallo.

 

Professor Saggese, “Il ’68 degli irpini” debutterà il 12 agosto a Torella dei Lombardi. Il suo nome e quello del direttore del Quotidiano del Sud saranno accostati a Faia, musicista nuscano. 

Sì, per la prima presentazione si è scelto un confronto generazionale tra chi ha visto il ’68 e poi lo ha raccontato nel nostro libro e chi, giovane cantautore irpino, si è ispirato a lungo ai gruppi musicali di quel periodo. Faremo un bilancio sulla situazione attuale in Italia e in Europa. La nostra raccolta di saggi sicuramente non esaustiva, ma dà una traccia della dialettica e delle problematiche di allora, del rapporto tra provincia e nazione. Qui come altrove la rivoluzione è stata tradita, i sessantottini si sono dimostrati non coerenti con gli ideali predicati. Non solo quando hanno estremizzato la lotta. Questo perché il movimento presentava contraddizioni. Si collocava a sinistra, ma fuori dal Partito Comunista, però i giovani di allora erano figli del boom economico che in qualche modo contrastavano. Insomma, il loro desiderio di benessere e ricchezza depotenziava la loro lotta. 

Quarant’anni dopo il ’68 l’Irpinia, come il resto del Paese, si trova a fare i conti con un forte e diffuso desiderio di cambiamento, che si traduce in termini politici con la sconfitta dei partiti tradizionali e l’avanzamento di forze definite populiste. Anche in questo caso non mancano le contraddizioni. Quanto hanno in comune i due periodi storici?

Ad alimentare il desiderio di cambiamento sono ragioni completamente diverse, oggi gli animatori del cambiamento non hanno la forza e neanche l’ispirazione ideologica di quegli anni. Il nostro è un mondo senza ideologie, ma i giovani di adesso sono anche non organizzati e non organizzabili per il loro stesso modo di vivere e di esistere in un mondo globale. L’opposizione stessa agli adulti è mossa da cause diverse. Quei giovani volevano uccidere il padre, questi invece vedono gli adulti ostili perché incapaci di garantire loro futuro. La contrapposizione non è sul piano culturale, ma tocca solo la sfera degli interessi con i grandi miopi e arroccati sulla difesa di posizioni e i giovani privati delle certezze e dei diritti, a partire dal lavoro a tempo indeterminato. 

Lei due anni fa ha provato a organizzare questi giovani che ha appena definito non organizzabili. Lo ha fatto promuovendo la costituzione di un’associazione, GiovanIrpinia. Come giudica quell’esperienza e i risultati che, almeno ad oggi, non ha prodotto?

Con i miei libri, come ad esempio “Fiori nel Deserto”, ho cercato di organizzare i giovani intorno a problematiche comuni, in particolare attorno alla richiesta di politiche più attente alle generazioni dei non adulti, perché quella giovanile è a mio avviso un’emergenza nazionale. Io diedi l’input, poi i ragazzi si sarebbero dovuti fare promotori dell’azione. Ciò non è avvenuto, un po’ perché una parte di loro è fuori, è presa dai propri progetti e necessità, dallo studio o dall’affermazione professionale altrove; altri invece, rimasti qui, sono immobilizzati dal senso di sconforto, dall’inerzia. L’entusiasmo è venuto meno insomma, perché ci si rende conto che siamo di fronte a una realtà troppo complessa e incomprensibile. Ma pure perché prima si lavorava nella comunità per cambiare il mondo partendo da essa; oggi ci si sente incapaci, disarmati e questo induce al disimpegno. 

Contro i sentimenti da lei appena descritti sembra volersi “scagliare” quest’anno lo SponzFest. Il tema scelto da Vinicio Capossela è quello della ribellione dalla mansuetudine, dall’immansimento. Può la cultura, possono gli artisti essere catalizzatori di energie che si svincolano dallo stato di cose appena descritto?

Iniziamo col dire che io ho l’impressione che l’intellettuale oggi sia molto più disarmato che in passato e, tranne chi è molto esposto mediaticamente, non ha possibilità di influire, ha interlocutori e pubblico molto ridotti. Pochi hanno un uditorio talmente grande da poter influenzare. Altro problema poi è capire se hanno idee o soltanto slogan, e quanta pochezza ci sia nelle loro posizioni. Spesso i più famosi sono anche quelli più vuoti perché per parlare a molti sono costretti a fare discorsi semplicistici. Capossela avrebbe un pubblico, ma a mia impressione non ha le idee. Predica da qualche anno la rivoluzione, senza risultato. I giovani irpini non hanno bisogno di questo messaggio, del rifiuto della società data. Tutto questo va bene per l’artista, non per l’uomo comune. Cosa resta ai giovani irpini dopo che si sono spente le luci dello SponzFest? Lui sa fare benissimo spettacolo, ma non può essere la soluzione o dare soluzioni. E’ semplicemente un artista.

Credo ne sia anche consapevole, non ha pretesa di essere altro. 

Sì, probabilmente è così. Io comunque seguo con preoccupazione le vicende delle giovani generazioni e penso che l’uomo comune non può permettersi di inselvatichirsi. Questa filosofia va bene solo per lo spettacolo.

Restando in tema di cultura e spettacoli, lei domenica sarà a Torella dei Lombardi, Comune di cui è stato anche assessore. Che effetto le fa vedere che il Premio Sergio Leone giace nel dimenticatoio?

Anni fa con l’associazione Sergio Leone creammo un’esperienza straordinaria, grazie al contributo prezioso di Gianni Minà e delle istituzioni del tempo. L’anno prossimo saranno 90 anni dalla nascita del regista e 30 dalla sua morte. Sto sollecitando già da qualche tempo la ripresa del Premio. La festa attuale a tema western è priva di un progetto culturale: Torella può anche diventare la città del cinema western, ma va messa in piedi una rassegna, un museo, si potrebbero fare ricostruzioni delle scene e dei set, in stile Cinecittà, da collocare stabilmente in qualche parte del paese. Non dimentichiamo che anche il produttore De Laurentis è originario di qui. Tutto questo sistema produce effetti, non la festa. Spero che il sindaco mi dia ascolto e lo faccia, almeno l’anno prossimo. Speravo lo facesse prima in verità. 

Paola Liloia

Classe 1985, laureata alla Sapienza in Editoria, Comunicazione multimediale e Giornalismo. Ha collezionato stage in uffici stampa romani (Confapi, ministero per la Pubblica Amministrazione, Senato) e collaborato con agenzie di comunicazione, quotidiani online locali e con il settimanale "Il Denaro". Ama la punteggiatura. Odia parlare al telefono e i tacchi. Ama l’Inter e le giornate di sole.

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