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Terremoto Irpinia: 40 anni e anche oltre nel libro di Ricciardi, Picone e Fiorentino

Si chiama “Il terremoto dell’Irpinia. Cronaca, storia e memoria dell’evento più catastrofico dell’Italia repubblicana”, il nuovo libro edito Donzelli con cui Toni Ricciardi, Generoso Picone e Luigi Fiorentino provano ad aggiungere nuovi elementi di riflessione sul sisma che ha colpito la nostra provincia ormai 40 anni fa. Uno storico, un giornalista, un giurista: ognuno affronta il tema in base alla sua esperienza professionale specifica, segmentando l’analisi in maniera profondamente diversa.

Il punto di partenza è che c’è stato un prima (storia), un durante (cronaca) e un dopo (memoria e interventi di ricostruzione) il 23 Novembre 1980, e che tutti e tre questi momenti necessitano di riletture in grado di superare stereotipi narrativi ed espedienti romanzeschi, basate su comprovati dati di fatto non ri(con)dotti “soltanto” al numero delle vittime o ai miliardi di lire degli sprechi edilizi.

Spesso si dice che il sisma dell’80 abbia causato uno spartiacque, e creato un’immagine edulcorata e idealizzata dell’Irpinia del “prima” e un fardello di insopportabile impotenza su quella del “dopo”, mentre il “durante” è stato spesso oggetto di sole commemorazioni retoriche. Questo lavoro tenta di superarla e lo fa in un anno particolare, quello della cifra tonda del 40, che marca – come gli autori affermano citando Jan Assman – «una soglia epocale, ossia il momento in cui il ricordo vivo viene minacciato dal declino e le forme del ricordo culturale diventano problematiche».

 

Il compito di Ricciardi, con Storia e storie di un territorio tra migrazione e terremoti, è quello di farci riflettere sul percorso che ci ha condotto fino al tragico evento e sul modo in cui la percezione indirizza il valore e la risonanza dei fatti. Sui motivi che hanno spinto per secoli a considerare certe catastrofi «eccezioni che confermano il naturale fluire delle storie nazionali». Sull’importanza di date simboliche, ma anche su quella di non dimenticare i processi che le hanno precedute e, a volte, previste. Perché è questo che fa la storia: «restituisce il senso del cambiamento». E, per esempio, ci racconta dati alla mano di come soprattutto l’Alta Irpinia fosse, ancora alle soglie degli anni ’80, la provincia più arretrata da un punto di vista industriale e in condizioni di sovraoccupazione, al punto che l’emigrazione venne addirittura considerata un fattore positivo, “funzionale” alla risoluzione della povertà.

La “fame di modernità” che arrivò con la ricostruzione post-sisma non si preoccupò di ricostruire anche il tessuto sociale e culturale. Mentre i numeri (dei migranti) e le date (dei terremoti precedenti) scorrono sotto i nostri occhi, arriva la proposta, ancora inapplicata dai più, di una nuova chiave di lettura per poter comprendere meglio certi fenomeni: non più “orizzontale”, che divide la Penisola in Nord, Centro e Sud, ma “verticale”, che darebbe dignità, finalmente, alle terre dell’osso, dell’Appennino, escluse da tutti i boom economici e “miracoli” italiani, eppure da essi inglobate nella narrazione ufficiale che precede quel 23 novembre.

Un paio di giorni dopo il sisma, il giornalismo italiano scopre un’Irpinia fino a quel momento sconosciuta, almeno da un punto di vista socio-antropologico. Picone, con Una provincia tra stereotipi e trauma: autorappresentazione di un territorio, ci guida attraverso tutti i luoghi comuni, duri a morire, di quello che oggi verrebbe definito lo “storytelling”, esterno e interno, della nostra provincia. Si parte con l’abusata metafora della sonnacchiosa periferia tra i monti, dove importanti inchieste scuotono gli animi per un po’, ma non cambiano l’immagine (falsata) di una terra votata al decoro, in tutte le sue accezioni.

Ma «Con le pietre crollate e i tufi sbriciolati è andata in frantumi l’oleografia di maniera e ne è svelato l’inganno», dice il giornalista irpino. E con la triste rivelazione delle condizioni di vita degli abitanti dell’Alt(r)a Irpinia, inizia un’ulteriore narrazione stereotipata, quella della povertà contadina, dei volti scavati dal sole, delle donne con gli scialli vestite di nero. Una condizione che genera empatia ma, contemporaneamente, marca una distanza sociale netta con le zone che si sentono “civilizzate”. Non passerà molto tempo che la solidarietà trasversale si tramuti in diffidenza e condanna del malaffare, e che l’Irpiniagate trascini tutti nel fango.

L’Irpinia diventerà il posto dei paesi “senz’anima”, sfigurati da una ricostruzione senza criterio, di icone posticce – come le chiama Picone – e falsi miti da sbandierare sulle brochure turistiche. Tutto è lecito, pur di dimenticare un trauma che non è stato adeguatamente metabolizzato perché fagocitato dal “dopo”, in un territorio che – finalmente, lo ammettiamo – un po’ si crogiola questa rappresentazione che ha subìto di sé.

 

«Per la gestione dell’emergenza e la ricostruzione, gli strumenti legislativi non sono risultati sempre adeguati alla gravità dell’intervento straordinario», specifica Fiorentino in L’opera di ricostruzione tra impegno civile e luoghi comuni.  Senza negare problemi e carenze di ogni provvedimento, puntualmente riportato e approfondito in effetti e interpretazioni fino a quelli a noi più contemporanei, il giurista invita, però, ad un’informazione che non manchi di tenere conto anche di alcuni aspetti positivi, spesso seppelliti dall’enorme e legittimo peso degli sprechi.

Come le assunzioni di giovani progettisti entusiasti e appassionati, oppure l’esperienza dei gemellaggi. Viene sottolineato come per troppo tempo la causa del disastro sia stata attribuita agli endemici problemi della morfologia territoriale, mentre ci sono voluti anni affinché si prendesse atto dei mancati interventi di risanamento e, soprattutto, della totale assenza di piani di sviluppo programmati. Fiorentino conclude con l’auspicio di una seconda ricostruzione, che punti a valorizzare la crescita strutturale dei borghi colpiti dal sisma, e che rilanci la cultura rurale non come ritorno al passato, ma come opportunità di potenziamento dell’indotto turistico basato sui punti di forza delle aree in questione.

Il volume si chiude con un doveroso parallelismo con la più recente delle catastrofi: la pandemia. La narrazione mediatica ha riportato l’attenzione sulle zone al margine, opposte alle affollate metropoli, dove il virus circola più velocemente e ha più occasioni di contagio. Il pericolo dello stereotipo da “piccola Svizzera” è di nuovo dietro l’angolo. Eppure, situazioni come Ariano tra le prime zone rosse d’Italia è l’ennesima dimostrazione che, laddove i servizi sono carenti e gli interventi strutturali ridotti, l’immagine da paese-presepe è un’ennesima volta fallimentare. L’auspicio degli autori, magari per l’anniversario dei 50 anni, è un’analisi del fenomeno iscritta nel più ampio scenario della storia repubblicana, avviato con questo loro lavoro.

Rosaria Carifano

Giornalista nonostante tutto, autrice per caso. Insegno danza e cerco cosa abbiano in comune un corvo e una scrivania.

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