E’ in vendita da lunedì scorso il libro “Mano Mozza, genesi e sviluppo di una mafia pugliese”, edito da Radici future e scritto dalla giornalista irpina Emma Barbaro e da Valentina Maria Drago.
Emma, per scrivere un libro ci vuole una buona ragione. Tu quando l’hai trovata?
L’ho trovata circa un anno e mezzo fa, quindi pre-pandemia. E in realtà credevo che, date le difficoltà che stanno attraversando anche le case editrici indipendenti, non saremmo arrivati alla pubblicazione. E’ un lavoro iniziato come conseguenza della mia collaborazione con l’edizione barese di La Repubblica, parlando di beni confiscati e mafie nella provincia di BAT (Barletta-Andria-Trani, ndr). Ho potuto conoscere, e quindi intervistare all’interno del libro, magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Bari, sostituti e procuratori aggiunti, ma anche il generale dei Carabinieri Gerardo Iorio del pool nazionale sul caporalato. E’ stato un bel confronto quello con persone che hanno partecipato in prima persona ai processi, ma è servito pure tanto lavoro su interi faldoni per ricostruire la storia processuale dalla fine degli anni ’70/inizi ’80, dai summit per rendere la Puglia un hub del commercio di droga, fino al 2018.
Come è stato, per te che sei irpina e quindi non locale, confrontarti in questi anni con un contesto così complesso dal punto di vista sociale?
La difficoltà territoriale dovuta all’essere una “straniera” in quelle terra c’è stata, soprattutto per la mancata conoscenza dei luoghi. E se devi andare nel ghetto o nel bene confiscato, puoi usare quanto vuoi la geolocalizzazione ma alla fine ti perdi. Però la mia non-appartenenza a quel tessuto sociale mi ha dato la possibilità di muovermi con maggiore libertà nel rapporto con le istituzioni e le persone. Sia chiaro: io sono convinta che noi giornalisti non siamo registratori della realtà, anche il modo di porre o non porre una domanda fa trasparire l’opinione che abbiamo di un argomento. E’ inevitabile e legittimo. Ma lì ho iniziato da zero nella costruzione di rapporti e questo mi ha permesso di scrivere e trattare gli argomenti con più oggettività.
Tu hai iniziato scrivendo soprattutto della battaglia dei No Triv a Gesualdo e poi di eolico selvaggio in Alta Irpinia. Torneresti a occuparti oggi della tua provincia?
Intanto, mi trovo in Puglia proprio per aver seguito le vicende dell’eolico selvaggio altirpino. Tornerei a parlare nella mia terra, ma alla luce dell’esperienza precedente lo farei con un’ottica più costruttiva e con un approccio più indipendente, come quello della rivista Terra di frontiera. Lo farei perché di fondo mi piacciono le cause perse, proprio come quelle delle terre di mezzo che vanno urgentemente raccontate. La provincia di BAT è un territorio cerniera tra Foggia e Bari, due centri che hanno una connotazione di tipo criminale evidente che finisce per non far percepire il problema presente lì. Lo stesso vale per l’Irpinia, dove si continua a ragionare come se i sistemi criminali fossero esterni alla nostra società, a Napoli e nel foggiano, invece è presente la criminalità in forme endemiche, sotto traccia. Eppure se è necessario sparare per strada, come avvenuto qualche mese fa, ti sparano. Lo dicono le cronache e le inchieste.
Avrai notato anche tu che di eolico selvaggio nell’ultimo biennio si è parlato molto poco. La questione è stata piuttosto silenziata. Le inchieste portate avanti dai magistrati pugliesi cosa ci dicono?
Ci dicono che ci sono segnali importanti e da non sottovalutare della connessione tra la criminalità dell’eolico in Alta Irpinia e la mafia pugliese, da Candela in poi. Ricordiamo tutti gli arresti per gli attentati con kalashinov a Bisaccia. Bene, quelle sono armi di cui qui non si ha disponibilità. Sono invece presenti in aree determinate della Puglia, dove si traffica marijuana come nel porto di Manfredonia e non solo, e che derivano dalle guerre nei Balcani. Mi hanno spiegato alla Dda di Bari che esiste un sistema di gommoni che si muovono nel mare Adriatico con a bordo droga e armi. Se la Guardia di Finanza li avvista, le armi vengono buttate a mare perché sono più difficili da ripescare. Quelle armi sono dirette a gruppi di assalto ai portavalori e non è un caso che gli arresti per le pale eoliche irpine siano arrivati lì. Poi c’è l’inchiesta Grande carro che ha portato altri arresti anche qui per varie fattispecie di reato. Pure in questo caso Dda e Procura di Foggia stanno indagando per capire fino in fondo le connessioni. Così come ci sono denunce depositate a Foggia e ad Avellino da parte di ditte del Nord, per servizio noleggio di mezzi di trasporto di pale eoliche, tra Bisaccia e Lacedonia che hanno avuto problemi. Insomma, il problema esiste e bisognerebbe tornare a parlarne, anche da parte dei comitati.
A proposito delle inchieste degli ultimi anni, credi possano contribuire a mutare quella errata percezione di cui parlavi?
Cito due episodi per me emblematici. L’anno scorso al “Premio Filangieri” di Lapio sono state messe a confronto le esperienze di Pasquale Drago nella Dda di Bari e di Vincenzo D’Onofrio, procuratore aggiunto ad Avellino. Mi aspettavo una maggiore presa di coscienza da parte delle istituzioni, ma a parte qualche presenza del posto, amministratori non ne sono venuti. Eppure dal sindaco di Avellino in giù erano stati invitati. L’altra circostanza sono stata i webinar della Provincia per il quarantennale del terremoto dove si è parlato di mafie come qualcosa di datato, di circoscritto alla fase della ricostruzione. Non ho sentito parlare di altro, non ho sentito condanne. Eppure c’è qui un sistema criminale che dalla città di Avellino si ramifica e opera nello spaccio, nell’usura. Magari non si chiama mafia, ma è criminalità organizzata e capillare. L’antimafia sociale ha senso se, anziché mettere like su Facebook, ci sforziamo tutti di capire meglio il contesto in cui viviamo. A partire da noi giornalisti, che dovremmo fare più domande.