È il presidente dell’associazione di volontariato Protezione Civile “Irpinia” di San Potito Ultra, consulente per la sicurezza di importanti realtà di settore del territorio, come la Omnia Service Engineering di Solofra, e autore del testo “Irpinia. 23 novembre 1980. Ore 19.35 per non dimenticare” edito Il Papavero. Ma Felice Preziosi è soprattutto il primo e unico disaster manager certificato e operativo dell’Irpinia e della Campania. Con l’avvicinarsi del quarantennale del sisma che ha colpito la nostra provincia, abbiamo fatto con lui il punto della situazione in materia di previsione e prevenzione dei rischi causati da catastrofi naturali, e approfondito il suo importante ma ancora poco conosciuto profilo professionale.
Chi è il disaster manager e di cosa si occupa?
È una nuova figura specialistica, riconosciuta in Italia con una normativa tecnica internazionale UNI, che affianca gli enti preposti nella gestione di un’emergenza. Al disaster manager spetta il ruolo di coordinatore della cabina di regia che si viene a creare in momenti di gravi urgenze per un territorio. Istituzioni, esperti della sanità, Protezione Civile, associazioni, comunicatori: tante sono le anime in campo da “miscelare”, e chi ha questo compito deve riuscire a recepire le diverse esigenze e organizzarle di conseguenza, per fornire una risposta adeguata alla comunità di riferimento. Il tutto, il più velocemente possibile perché, soprattutto quando parliamo di catastrofi naturali, tempi di reazione immediati sono fondamentali.
E qual è il suo ruolo quando l’emergenza non è ancora sopraggiunta?
La macchina dei soccorsi va creata prima, non durante l’emergenza. In “tempi di pace”, il disaster manager si occupa di prevenzione e formazione, perché non bisogna farsi cogliere impreparati. Studia i rischi che potrebbero interessare i diversi territori e attua i piani comunali di protezione civile tenendo conto di tutti i dettagli, come le diverse condizioni climatiche. Gli interventi vanno calcolati sempre sulla base del peggiore scenario possibile, e c’è sempre bisogno di un piano B, alternativo, già pronto.
Come si diventa disaster manager?
A seguito di un percorso triennale di Alta Formazione, di I, II e III livello, al quale va sommata obbligatoria esperienza sul campo in ambito operativo. Dal 2018 esiste un vero e proprio albo nazionale al quale si accede solo con il raggiungimento della certificazione adeguata e, negli anni successivi, va garantita la permanenza dei requisiti.
Cosa fa un disaster manager in tempo di Covid?
Personalmente, al momento sono impegnato presso il Centro Operativo Comunale di San Potito Ultra, coadiuvando il sindaco nella gestione dell’emergenza sanitaria. Siamo in una condizione davvero particolare, la pandemia era imprevedibile sotto tutti i punti di vista. Svolgiamo briefing quotidiani con tutte le figure di supporto per verificare le esigenze dei cittadini; ci occupiamo di attivare tutte le procedure di assistenza alle famiglie in isolamento cautelativo e nei nuclei dove si sono riscontrate positività, che non possono lasciare la loro residenza anche per le esigenze più banali; coordiniamo i volontari; attiviamo le procedure di monitoraggio sanitario, come i tamponi; verifichiamo la possibilità di effettuare le sanificazioni sui territori; ci occupiamo di sensibilizzare le comunità sulle giuste norme da seguire, di volta in volta aggiornate in base allo stato emergenziale, e di limitare i danni di quella che noi chiamiamo la “infodemia”, ovvero un surplus di cattiva informazione che genera panico, frutto di chi crea inutile allarmismo per un click in più o diffonde fake news.
La pandemia è stata decisamente inaspettata. Ma per le calamità naturali come un terremoto, come si opera in campo preventivo?
Un terremoto nel deserto non causa vittime, perché non ci sono abitazioni. Non è il terremoto in sé il problema, ma come l’uomo costruisce i luoghi in cui vive, i suoi involucri. È il territorio che va messo in sicurezza prima che accada qualcosa. Perché in Giappone, dove si convive con questi fenomeni, le vittime sono un numero sempre più esiguo? Oppure, senza spostarci dalla nostra nazione, perché il Friuli Venezia Giulia ha il migliore sistema di Protezione Civile regionale? Seneca diceva che “La storia insegna, ma nessuno impara”. Se avessimo recepito quanto accaduto in passato, in Campania saremmo a ben altri livelli in termini di prevenzione, soprattutto istituzionale.
A questo proposito, com’è, a 40 anni di distanza dal sisma, la situazione in Irpinia?
Il 90% dei comuni irpini ha un piano comunale di Protezione Civile, e trovo già grave che, in una provincia come la nostra, non si sia raggiunta la totalità. Inoltre, molti di questi piani sono fermi al 2015, quando venne permesso alle amministrazioni di dotarsi di questi strumenti grazie ad un finanziamento regionale a fondo perduto. Ma tali piani andrebbero, per obbligo di legge, aggiornati periodicamente in base alle modifiche che il territorio subisce, come la costruzione di nuovi edifici o strade, e dubito fortemente che la maggior parte lo sia. In paesi piccoli, può essere sufficiente una volta ogni due anni. In comuni capoluogo come Avellino, sarebbe opportuno due volte all’anno. Inoltre la cittadinanza non è mai adeguatamente informata di questi piani e sui comportamenti da tenere durante e dopo un evento calamitoso. Ad esempio non sa quale sia la sua area verde di riferimento, o dove saranno sistemate le tendopoli provvisorie e quante unità siano previste. Avere i piani comunali e tenerli chiusi nel cassetto, non serve a molto.
Cosa possono fare i cittadini?
Sollecitare i loro comuni ad una comunicazione efficace. Chiedere le disposizioni del piano comunale. Chiamare un tecnico e verificare la staticità della propria abitazione. Quando si acquista o si cambia casa, chiedere contezza di queste cose e non limitarsi a scegliere solo sulla base della vista dal balcone o della zona di residenza.
Se dovesse dedicare una riflessione in occasione dell’anniversario tristemente importante come il quarantennale del sisma, cosa direbbe?
Si parla di terremoto soltanto in occasione dell’anniversario. Con il quarantennale, sarà tutto ancora più amplificato. Si dovrebbe sensibilizzare la cittadinanza sui rischi, informarla, adoperarsi per prevenire, tutto l’anno. Quando accadono le catastrofi, tutti sono pronti a contare i morti e i feriti, a chiedersi se si poteva fare qualcosa prima. Ma dietro i numeri ci sono sempre le persone, è un dato che non andrebbe mai dimenticato. Qualunque cosa sia in nostro potere fare affinché la cifra delle vittime di una catastrofe si avvicini sempre di più allo zero, non va rimandata neanche di un giorno.