Il rischio di incappare in banalità è alto. Perché il nome di Ciriaco De Mita resterà legato in maniera indissolubile all’Alta Irpinia e alla sua Nusco, qualunque sia il giudizio che i posteri vorranno riservargli. È nel paese che gli ha dato i natali che l’ex presidente del Consiglio dei Ministri ha scelto di vivere i suoi ultimi anni, non da semplice cittadino ma da sindaco. E da sindaco è morto. La fascia tricolore sul feretro a ricordarlo.
Sono stati due mandati di scontri duri con la minoranza, di frizioni interne, di difficoltà amministrative, ma pure di onori per una comunità che negli anni Ottanta è stata l’ombelico d’Italia e col De Mita amministratore ha ospitato ben tre edizioni della Scuola di alti studi politici del Suor Orsola Benincasa e personalità di primissimo piano. L’esperienza da premier non è stata certo la più longeva tra le tante del curriculum demitiano, ma sufficiente a renderlo eternamente il presidente.
Quella fascia tricolore, indossata per la prima volta nel 2014, però De Mita l’ha fortemente desiderata. Non è stato un capriccio dell’età senile, una rivincita per quella mancata elezione nel suo paese negli anni ’50. Lettura tanto romantica quanto sbagliata. Come tutto quello che partoriva la mente dell’ex segretario Dc, la carica di sindaco era strategica. È stata l’espediente per sedersi da protagonista, per sette anni, al tavolo della sperimentazione in terra irpina della Strategia nazionale Aree interne. Il progetto pilota poi diventato Città dell’Alta Irpinia.
Ideata a Roma dal ministro Fabrizio Barca, concretizzata a Napoli da Stefano Caldoro e a seguire da Vincenzo De Luca, Ciriaco De Mita aveva compreso subito le potenzialità della Snai e su di essa si era fiondato. Un’occasione dal sapore dei treni che passano per l’ultima volta. Consapevole di non poter fermare l’avanzata dell’età, De Mita aveva voluto guidare il processo cimentandosi con un sistema di finanziamenti, fatto di bandi, piattaforme, partenariati e rendicontazioni, molto lontano dai meccanismi della Prima Repubblica, quando in una notte con una telefonata si poteva mettere in piedi un ente o un consorzio o una fabbrica e il destino di un luogo cambiava.
È dall’assemblea del Progetto pilota che il presidente ha mosso i fili della (mai davvero efficace) battaglia allo spopolamento nei 25 paesi altirpini, spesso tramutatasi in una lotta contro i mulini a vento della burocrazia o in una sterile contrapposizione tra bande politiche. De Mita ne è rimasto imbrigliato. Ostinato ad agire come uomo solo al comando, il presidente ha mancato di trasparenza, di collegialità. Ha suscitato la rivolta dei suoi più vicini, pronti a coglierlo nel momento di maggiore debolezza e a sacrificarne il ruolo per affermare nuovi equilibri. La sua elezione a presidente dell’assemblea arrivò per acclamazione in un pomeriggio terribilmente invernale in quel di Bisaccia. La sua defenestrazione è avvenuta lo scorso autunno a Calitri, con il voto di tutti tranne uno, il sindaco di Conza della Campania. La sua solitaria (e tenera) fedeltà al leader nuscano dice tanto della sorte che spetta ai grandi quando non riescono a comprendere il mutato sentimento dei tempi.
Il miracolo post terremoto non si è ripetuto. La rinascita post ricostruzione o post industrializzazione non ha ancora preso forma. De Mita se ne è andato senza vedere i frutti del Progetto pilota, ha lasciato l’Alta Irpinia molto meglio di come se l’era caricata addosso dopo il 23 novembre 1980 e molto peggio di come sarebbe potuta essere grazie a quel 23 novembre. Come è possibile che un territorio che ha avuto una delle menti italiane più brillanti del Novecento sia oggi in default di idee, visioni e abitanti? È la domanda che De Mita non potrà più farsi e della quale dovrà farsi carico chi resta. Ora toccherà ai “nani”, scesi dalle spalle del gigante, fare la propria parte. Ora capiremo davvero se il presidente era un freno o una spinta per questo territorio.