La settimana sera sono stata ad Aterrana, frazione di Montoro, per assistere ad un bellissimo spettacolo teatrale “Carmine Crocco e le sue cento spose”, scritto dalla mia amica Licia Giaquinto, nata a Torchiati di Montoro e molto legata al suo paese, malgrado viva a Bologna da anni.
Ero stata ad Aterrana, splendido borgo seicentesco, qualche anno dopo il terremoto. Mi colpì la sua grazia selvaggia, quel leggiadro disegno unitario di palazzi e portali in pietra, finestre e vicoli, quegli androni odorosi di alberi e fiori che si inerpicavano fin dentro la montagna densa, inesplorata. Chi ci accompagnò a visitare la chiesa di San Martino, piccolo gioiello tardo barocco, raccontò che in paese era iniziato un lento ma inarrestabile fenomeno: la popolazione era scesa a valle o aveva preferito trasferirsi in altri comuni.
Quella sera, erano passati almeno venti anni da quella mia prima visita, siamo passati attraverso un paese svuotato, con case portoni e finestre sprangate, belle loggette coperte di erba e alberi carichi di frutti che nessuno raccoglie. Ai trecento abitanti del borgo dovrebbero dare un premio, per voler ancora abitare un paese che non è più quello della loro giovinezza, accomunati dal ricordo e forse dalla speranza che in quel luogo possa ritornare un po’ la vita di un tempo.
Perché così sono i luoghi, recinti sicuri di quello che siamo stati, che siamo, e perderli significa perdere una parte di noi, quella più sentimentale e fondativa. Ho scritto di Aterrana, ma avrei potuto parlare di altri paesi dell’Irpinia, Andretta, Morra de Sanctis, Bisaccia, Cairano, paesi in cui lo spopolamento è stato inversamente proporzionale alla quantità di denaro investito nel dopo terremoto. Con tutto quello che è stato speso in case e infrastrutture, avremmo dovuto intercettare condizioni di benessere e di progresso per questa nostra terra, avremmo dovuto avere in ogni paese balconi fioriti e camini accesi, lavoro per i giovani, nuove famiglie e tanti bambini nelle scuole materne. Invece qualcosa non ha funzionato. E i paesi sono vuoti, e i si vende appesi ai balconi fanno troppa tristezza.
Non c’è stato un progetto politico, negli anni del denaro facile, su cosa dovesse diventare l’Irpinia del dopo terremoto. Ogni paese “politicamente” faceva da sé, scrutando con sospetto l’altro paese che forse riceveva più contributi e costruiva più aree industriali, aree che adesso languono alle periferie dei piccoli centri, inutilizzate. Si sono macinati quintali di cemento per case che nessuno abiterà mai, i cui proprietari vivono oltre Italia; si sono stravolti territori e deviato fiumi per insediare fabbriche che non hanno mai funzionato, di cui fin da allora non avremmo saputo che fare.
Possibile che si potessero collocare trenta aree industriali in Irpinia, senza attivare una strada ferrata che trasportasse le merci a valle? Per non parlare di Avellino, capoluogo senza funzione trainante per il territorio, in cui si è consumata la fiera delle opere incomplete oltre a una mostruosa cubica ricostruzione? Inutile polemizzare, certo, ma intanto i paesi sono quelli che sono e l’Irpinia tutta è sempre più povera di investimenti e persone.
Anche se qualcosa, impercettibilmente, sembra stia cambiando.
C’è un interesse nuovo per questa nostra terra da parte di associazioni di volontariato e di giovani operatori economici, di vignaiuoli e artisti di ritorno, come Franco Dragone, Vinicio Caposela, con il loro Cairano 7x, lo Sponzfest.
Si è combattuto senza scampo per il ripristino della ferrovia Avellino-Rocchetta, contro le pale eoliche, con le associazioni Inloco motivi, Comitato Voria, Infoirpinia, non ultimo il Touring Club di territorio, i Piccoli Paesi. Si è riscoperta finalmente forza agricola, il valore della Terra in quanto tale, il fascino dei suoi paesaggi, la bellezza dei suoi borghi. L’estate sembra la stagione migliore per appuntamenti culturali, per visite nei castelli, per percorrere la strada ferrata Avellino-Rocchetta, per commuoversi davanti ai tramonti. Purtroppo questo non basta, non può bastare per mettere in moto un’economia, per creare posti di lavoro, per far trasformare la curiosità dei turisti di passaggio in permanenza. Ci vuole tempo, investimenti, cooperazione, conoscenza e amore per questo territorio.
Chi vorrebbe trasferirsi oggi in un paese che non ha servizi, a cominciare dagli ospedali, strade di accesso, connettività e abitanti? “Ma bisogna ricordare che questa Alta Irpinia, sapientemente descritta da tanti cantori della nostra provincia, è anche terra di servizi scarsi o non adeguati, di battaglie contro i mulini a vento il più delle volte perse da cittadini e amministratori”, si leggeva in un articolo apparso su questo giornale e che ha creato molto dibattito sul web.
Perché un anno è fatto di dodici mesi e le stagioni non sono tutte felici come l’estate. Sono lunghi gli inverni in Irpinia. E non basta descriverne le sue bellezze e gli incanti che ne provengono, neanche organizzare istruttive gite solari, per cambiare di botto le cose. Per carità tutto serve, per alimentare la coscienza di vivere in un luogo di una bellezza silenziosa, dolcissima e aggressiva, un luogo che non va contaminato da discariche, estrazioni di petrolio e pale eoliche, il cui ambiente naturalistico e antropico va difeso e catalogato, come se fosse un enorme unico parco posto nell’Italia di mezzo. Perché è solo dalla forza ambientale, intensa diffusamente, anche nelle sue manifestazioni minime, dal dialetto alla manipolazione della pasta e della creta, può venire fuori un possibile disegno concreto di questa grande “piccola Svizzera nel cuore degli Appennini” come si definiva a metà novecento l’Irpinia.
Ho letto di un progetto pilota che costituisce un consorzio 25 comuni dell’Alta Irpinia. Di un altro che istituisce una zona franca a burocrazia zero, con l’intento di incentivare un progetto turistico in queste zone. Ma è solo di turismo che abbiamo bisogno, di alberghi, ristoranti e ricettività? Certo è un’ottima cosa, ma io credo in uno sviluppo che abbia a che fare anche con il silenzio di questi luoghi e che non scardini gli equilibri interni di una collettività abituata a ritmi e consuetudini pacate, rispettose dei rapporti, e per questo ancora così umane.
Credo ad una Irpinia percorribile e raggiungibile non dalla massa vociante che consuma e lascia spazzatura, dormendo e mangiando in alberghi stile “Capitelletto barocchetto, con piscina a forma di cuore” per matrimoni e cerimonia in stile american country, ma che prediliga la scelta di una produzione e offerta di qualità, con coltivazioni intelligenti (Gianni Fiorentino, nella sua azienda a Paternopoli ha impiantato un meleto di mele limoncelle, introvabili anche sui mercatini) con recuperi architettonici organici, con un costruito green, rispettosi dell’ambiente e di questa sua ruralità, che è poi il senso più profondo e materno del suo fascino. Ci vorrà tempo, ma bisogna iniziare, una buona volta.