Donne, trovatevi un uomo che vi desideri come un uomo desidera un piatto di cannazze lungo l’interminabile salita a piedi verso il Vallone Cupo Gagliano di Calitri in direzione Sponz Fest! Il mio amico professore aveva nominato la parola cannazze già in macchina. Figuratevi lungo una strada con pendenza percepita che ha sfiorato il 50 per cento, con jeans, giacca e scarpino in barba al dress code del festival caposseliano. Un chilometro e mezzo a piedi per raggiungere il vallone, roba che il lago delle canne dell’anno scorso mi è sembrato una passeggiatina con gelatino sul lungomare. Poco dopo il cimitero ecco in lontananza la musica dei tarantolati, che si avvicinava e sfumava a seconda dei curvoni verso l’alto. E l’asfalto pian piano lasciava spazio alla fanghiglia selvaggia. Ce lo aveva detto l’ausiliario del traffico all’atto del perentorio ordine: dietrofront con la macchina, da qui si va per una selva oscura. “Siete selvaggi o no?“.
Non lo eravamo ieri sera, neanche un po’. Non come altri, sotto e sopra il palco allestito in un luogo meraviglioso, arena naturale pensata per il primo concerto circondata dagli alberi e dalla luna, dalla nebbia che lambiva il costone di collina e dai rumori della natura. “Volete roteare con me o non siete selvaggi?“, urla la cantante dopo la lunghissima filastrocca in chiave tarantolata Vengo da Gerusalemme senza ridere e senza piangere. Corpi in movimento, boccioni di vino portati come portachiavi, sorrisi ed estasi. L’arrivo allo Sponz Fest – non proprio all’iniziazione per la verità – era tutto questo. Il fango sotto le nostre scarpe mansuete e l’invito a liberarci dalla nostra mansuetudine. “Voglio le cannazze“, dice alle ore 22.55 circa l’amico professore. Notiamo uno stand con la scritta cannazze ma non v’è traccia del piatto calitrano. Così il professore si rassegna e si godrà lo spettacolo, compreso un documentario sul compianto e celebrato Antonio Infantino, fondatore dei tarantolati di Tricarico.
Intanto, piccolo inciso, ancora una volta lo Sponz Fest parte bene. Centinaia di persone in un luogo che non è una piazza, tante altre già passeggiano sul corso e nel centro storico di Calitri, che poi sarebbe comunque l’ambita meta per un meritato ristoro. Però la combo Infantino-Capossela viene criticata dal mio amico. Non sul piano artistico-musicale, quanto sul piano dell’autenticità del messaggio, dell’attuabilità quotidiana delle pratiche sciamaniche o qualcosa del genere. “Sì ma ‘sta taranta, come lo Sponz, è un’idealizzazione. Di qualcosa che non c’è più. Sì, liberiamoci pure dalla mansuetudine. Va bene. Sì andiamo in estasi, in trance, seguiamo i ritmi ipnotici e liberiamoci. Sì ma per quanto? Un giorno? Una notte? Una settimana di festival? E poi quando ti svegli che succede?“, si sfoga sulla salita che per fortuna è diventata discesa. E ripete: “Sì ma mò nu bello piatto re cannazze mò ce lo vulimmo i a fa?”
Cannazze o meno, per me non c’è Sponz senza la birra al Poldo’s Bar. E così fu. Avevamo già perso ogni poesia, ogni slancio verso l’onirico, le suggestioni della natura e la voglia di lasciare a casa noi stessi per trovare vie di fuga temporanee alla routine. Dopo poco lasciammo pure ogni speranza di trovare la pasta dei desideri. Ovviamente verso l’1.35 circa i ristoranti a portata di mano erano belli che chiusi. Ma i primi vicoli del centro storico, la mia postazione preferita, diedero a noi la soddisfazione con altre vivande e bevande. Così l’uomo si acquietò e più che liberarsi dalla mansuetudine si liberò semplicemente della fame. In tempo però per ascoltare le serenate degli anziani calitrani, uno spettacolo spontaneo, un incedere ciondolante che ipnotizza. Che forse lo fa meno della taranta, ma alla fine sempre Calitri-Sponz-Musica è…