Per una precisa scelta elettorale – ma non solo – il referendum del 17 aprile è stato caricato di una valenza politica che va ben oltre il ragionamento, logico e doveroso, sulla politica energetica nazionale. Lo hanno voluto i comitati più “a sinistra” e pezzi della stessa sinistra PD; lo ha voluto il M5S che per settimane ha invitato a votare contro la cricca Renzi-Guidi-Boschi; lo ha voluto quella parte dei comitati che un po’ passivamente, di fronte a un referendum azzoppato dall’ammissione al voto di un solo quesito, si sono fatti strumentalizzare facendo fare la voce grossa nel dibattito a questioni non direttamente connesse all’ “ambientalismo” che pure erano e sono tante; lo ha voluto lo stesso Renzi nel momento in cui, anziché scegliere la strada della libertà di coscienza per i suoi iscritti, ha preferito invitare all’astensione.
Al di là quindi del risultato che questo referendum consegna sul piano prettamente ambientale, ci sono alcuni dati che emergono su quello politico e che nessuno oggi può far finta di ignorare.
Innanzitutto, è una sconfitta pesante per i comitati che hanno dimostrato tutti i loro limiti e le loro debolezze. Se è vero che “dovevano fare i comitati”, lo hanno fatto molto bene nella fase di emersione del problema fino a farlo entrare nell’agenda della politica, e molto male subito dopo. Si sono parlati addosso, non hanno coinvolto la gente, sono rimasti prigionieri dei social, che sono un grande strumento, ma non lo strumento. Il voto è cosa seria e si chiede incontrando la gente faccia a faccia, spiegando, motivando, coinvolgendo chi sui social non vive e chi, pur vivendoci, nella maggior parte dei casi preferisce la leggerezza, alla riflessione.
A livello nazionale il referendum consegna anche la vittoria politica a Renzi e al Governo che, nonostante l’inchiesta lucana Tempa Rossa e le ombre sui suoi ministri, esce da questa tornata elettorale più forte di prima. Per tanti motivi, non tutti condivisibili, ma ne esce rafforzato. Esce legittimato a fare, a provare a cambiare, a sbloccare l’Italia. Di contro, il M5S che più di tutti si era intestato il sostegno al fronte del SI, ancora una volta si dimostra un fiore che non la forza di sbocciare in tutta la sua bellezza. Ma restando al PD, il referendum dice chiaramente che gli Emiliano di turno devono lavorare ancora molto per poter ambire a contrastare la leadership interna al segretario-Premier. E poco importa se sui territori molti accesi sostenitori del NO Triv siano proprio renziani della prima ora: le urne sembrano dire che la gente risponde e si riconosce in Renzi, non nei renziani.
Infine, premesso che anche l’astensione fa parte del gioco democratico in un referendum (non invece in un’elezione, nella quale si ha il diritto-dovere di non delegare agli altri la scelta), non può sfuggire che tra le regioni a più bassa affluenza ci siano Campania e Sicilia. Territori cioè interessati da vicino dal discorso trivellazioni (su terra ferma come in Irpinia o Sannio o nel vallo di Diano, o in mare) e che, alla luce del dato sull’affluenza, dimostrano di essere luoghi in cui la democrazia non è ancora matura. Perché è una democrazia non consapevole, non informata, che ha sempre bisogno di essere portata per mano dal politico che bussando alla porta indica il voto.