Quando mi dissero per la prima volta, qualche mese fa, che nella Baronia di Vico negli anni addietro si coltivassero i lupini, rimasi sorpreso e meravigliato. Non sapevo nemmeno si trattasse di un legume. Non sapevo neppure avesse un’infiorescenza bellissima, di un colore viola chiaro e acceso. Un legume antico in questa porzione d’Irpinia, tanto da essere un elemento simbolo della cultura e della società contadina. Un elemento che nelle menti degli anziani e dei sessantenni riporta subito al clima festoso. Infatti nelle feste di paese o al cinema era il naturale sostituto degli odierni pop corn. Ma prima di arrivare ai palati, il lupino, una volta secco, veniva prima raccolto e poi reidratato per circa sette giorni in acqua corrente. All’epoca, questa non era ancora arrivata nelle case e quindi i lupini venivano messi in sacchi di iuta e adagiati nelle fresche acque dei ruscelli dei crinali della montagna di Trevico, ben nascosti dalla vegetazione per non essere sottratti al legittimo proprietario.
Oggi la coltivazione di questo legume è stata ripresa a Trevico dal signor Rocco La Salvia, che da qualche anno ne ha rilanciato anche l’uso in cucina. Come tutti i legumi, anche il lupino può tranquillamente essere usato come condimento: per la pasta per esempio.
L’Associazione trevicana “Irpinia Mia” presieduta da Mariangela Cioria, da qualche anno, tra le tante attività associative ha inserito la promozione di tutti i legumi anticamente coltivati in Baronia. Del lupino ma non solo. Lo scorso marzo è stata protagonista a “Leguminosa”, il Mercato degli ecotipi nazionali e internazionali più importanti del patrimonio leguminoso dell’umanità, ideato da Slow Food Campania e svoltosi a Napoli, nella bella cornice di Galleria Umberto I.
Tra i tanti legumi, si scopre l’esistenza di ecotipi davvero straordinari. Il fagiolo Grigio, da non confondersi con quello “Turco Grigio” della Garfagnana, ha dimensioni piccole e un colore appunto grigio (chiaro) si coltiva come quello Giallo ancora oggi in particolar modo nel comune di Scampitella. Anche quest’ultimo non è da confondersi con il raro “Fagiolo Giallo delle donne Indiane”, di provenienza europea e coltivato solo da alcune comunità di indiani americani. Di ottimo sapore, entrambi i fagioli irpini vengono utilizzati più che altro per le zuppe, ma sono buoni anche da accompagnamento alla pasta. Il “Fagiolo dall’occhio nero”, abbastanza comune nell’Appennino campano, è anch’esso coltivato. Il fagiolo che invece non presenta chissà quali doti estetiche particolari,è il più saporito in assoluto: “fasul’ r’ granurinij o paisan’“. Prende il nome dalla caratteristica di arrampicarsi lungo il fusto della pianta del mais, un ottimo esempio di sinergia tra due specie vegetali differenti. Lunghe ora di cottura, come da tradizione, nella pignatta vicina al fuoco del camino, con annessa pignatta contenente solo acqua calda per il rabbocco, non appena evapora quella di cottura dei fagioli. Cucinati poi con della cotica di maiale sono qualcosa di eccezionale per il palato.
Altri legumi particolari, seppur non proprio caratteristici della zona, sono le fave rosse e quelle bianche, oltre alle tradizionali, e i ceci. Questi ultimi, come i lupini, riportano alla civiltà contadina e alla tradizione. Nei paesi della Baronia, in particolare a Vallata, ancora oggi vi è l’antica usanza di consumarli cotti nel vino il due novembre, in onore all’anima dei morti (“cicc’ cutt’ p’ l’an’ma r’ li murt’”). Rito culinario assai diffuso nel Meridione, dove però il termine “cicc’” sta a significare chicco. Infatti già nella vicina Puglia, sono i chicchi di grano e di melograno ad essere oggetto dell’offerta votiva.
La cicerchia, invece, assai ricercata per il suo sapore a metà tra il cece e la lenticchia, è coltivata solo da poche famiglie, prettamente per un uso domestico e non commerciale. Nella vicina Frigento, invece, è un legume tipico tanto da prenderne la denominazione del comune e tanto da farne una delle rare sagre degne di questo nome della provincia irpina.
Da qualche anno, parallelamente ai pochi produttori dislocati negli otto comuni addossati alla montagna di Trevico, si stanno sviluppando diversi campi sperimentali per l’introduzione su più larga scala della coltivazione di questi legumi. Un cambio di colture, invece dei più comuni cereali, con nuove tecniche di coltivazione, con antichi semi, potrebbe davvero portare nuova linfa alle economie di questo areale ancora molto fertile sotto tutti i punti di vista.