Qualche giorno fa è stata smantellata la struttura che ha ospitato per anni la pizzeria “Saggese”. Quel luogo, nel paese dilaniato dal terremoto di Sant’Angelo dei Lombardi, è stata la principale location di compleanni, del sabato sera, di primi innamoramenti e prime birre per chiunque sia nato a ridosso del 1980: la generazione che ha vissuto soltanto gli effetti successivi al terremoto, che però li ha vissuti da ragazzino, la generazione cresciuta tra le macerie, che per tutti gli anni Ottanta non ebbe idea di cosa fosse un paese senza macerie e senza prefabbricati.
Lo smantellamento del prefabbricato dei fratelli “Saggese”, a 35 anni dalla tragedia dell’Irpinia, può tranquillamente esser visto come un fatto positivo, una cancellazione anche simbolica. “Sì al ricordo, sempre. Ma ora guardiamo avanti“. Quella struttura, per l’epoca una pizzeria a quattro stelle tanto era accogliente, sorgeva nella più grande area prefabbricati del paese. E’ stata demolita per i lavori intorno al nuovo stadio.
C’è ancora qualche residuato post-sismico sparso qua e là, a Sant’Angelo e altrove. A Guardia, a Conza o a Lioni. Baracche nascoste dalla vegetazione o ancora visibili, riadattate a uso turistico. Ma il fatto che uno degli ultimi residuati sia scomparso produce una strana sensazione in chi lì passava il sabato sera. E’ come se d’un colpo ti venisse in mente tutta la vita trascorsa tra quelle strutture provvisorie.
E allora come d’incanto, o come di schianto, ricordi la coca-cola al prefabbricato-bar “Americanino”. O i capelli tagliati nei prefabbricati di “Franchino” o di “Carminuccio”. Le caramelle, i salatini, le chewing-gum comprate in piazza dal sali e tabacchi mobile di “Aquilino”. Oppure la domenica mattina passata tra la squadra dei chierichetti nella chiesa-prefabbricato. I primi vestiti decenti acquistati da “Fuschetto”, che negli anni ’80 era in una baracca nella baraccopoli-commerciale di piazza De Sanctis. E ancora i villaggi-prefabbricati della Chiesa, il Cristo Re. Le esperienze adolescenziali negli affollatissimi centri sociali-prefabbricati, magari quello di via Ginestreto che ospitò prima i cineforum dei grandi, messi in piedi da buoni preti, poi la prima e unica esperienza autogestita del paese. Altri ragazzini, altri adolescenti, hanno vissuto altri bar o altri barbieri, altri tabaccai e venditori di dolciumi. E ogni paese dell’Alta Irpinia ha avuto il suo Aquilino e il suo Franchino. Tutto, rigorosamente, in quattro mura di lamiere o cemento. Molte delle quali rigorosamente all’amianto…
In tutta l’Alta Irpinia i prefabbricati che iniziavano a svuotarsi, di abitanti e di negozi, diventarono sale multiuso. Ideali per i musicisti, si insonorizzavano con pochi soldi. Oppure radio. In tutta la valle dell’Ofanto, una volta disabitati, furono alcove. E ritrovo per qualunque attività da nascondere: lecita, pericolosa, illecita. Di amori e amori tossici. Pian piano si trasformarono in cimiteri di materassi sempre più neri, con mura rosicchiate dall’umidità. Intorno cresceva l’erba che li nascose prima di un intervento di bonifica. Paradisi e inferni di cani, gatti e sorci. E allora il quadro paradossalmente idilliaco degli Aquilino e della Chiesa, dei Saggese e Franchino, si sgretola. Si sgretola analizzando e osservando quel periodo a distanza di 35 anni. Contraddizioni connesse solo dall’assurdità di un’infanzia o di un’adolescenza passata tra lamiere e cemento giallognolo. Non si stava meglio quando si stava peggio.
Ma si fa fatica a ritrovare oggi la tensione positiva e negativa che sempre attraversa il luogo-vittima di una tragedia, che sia Sarajevo dopo la guerra o Sant’Angelo dei Lombardi dopo il terremoto. E’ come se un prefabbricato ci volesse sempre, non fosse che per il gusto di andarsene via… Un prefabbricato che ci ricordi quanto siamo fragili e precari. Che ci induca a vivere meglio. A non sedersi. A non accontentarsi. A non arrendersi al nulla che avanza, fatto di emigrazione e poche speranze.
Oggi è giorno dei ricordo e giorno di convegni. Giorno di locandine e di pensieri come questo. Banale ma doveroso porre l’accento sull’importanza della prevenzione e della riduzione del rischio. Ma oggi siamo davvero all’anno zero e superato faticosamente il post-terremoto dobbiamo iniziare a guardarci in faccia, ognuno nel suo piccolo. E dirci che una comunità si può rifondare oppure no. Possibilmente non su un social network, piuttosto ritrovando quello spirito di partecipazione e condivisione che aleggiava all’interno dei prefabbricati.